Pochi mesi dopo, nella sentenza n. 15642 del 24 luglio 2015, la Suprema Corte, richiamando alcuni precedenti orientamenti, ha affermato che la disciplina che regola il cd. transfer pricing “costituisce una clausola antielusiva diretta ad evitare che all’interno del gruppo di società vengano effettuati trasferimenti di utili mediante l’applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti, onde sottrarli alla tassazione in Italia a favore di tassazioni estere inferiori”.
Ancora più di recente, precisamente nella sentenza n. 6656 del 27 gennaio 2016, la Cassazione ha ripreso questo concetto anche in una chiave differente, stante anche il caso specifico che era giunto al suo giudizio, riferita al tema della presunta antieconomicità dell’operato di una società, nei confronti di un’altra impresa appartenente allo stesso gruppo, in relazione al sostenimento di costi pubblicitari comparati ai ricavi tratti dalla vendita dei beni.
Ebbene, alla luce di questo orientamento che va via via consolidandosi presso la Suprema Corte, l’applicazione delle norme sui prezzi di trasferimento viene vista come uno strumento diretto a combattere fenomeni di elusione che si sostanzierebbero in trasferimenti surrettizi di redditi da uno Stato all’altro per fruire in modo artificioso di regimi fiscali più favorevoli.
È evidente che sotto questa prospettiva, l’applicazione della norma pone una rilevante questione in termini di oneri probatori.
La citata giurisprudenza, infatti, richiama la necessità che venga dapprima verificata, da parte dell’Amministrazione che intenda contestare la sussistenza dei presupposti di applicazione della disciplina, l’esistenza di un fenomeno elusivo il quale non parrebbe poter prescindere dall’indagine del livello di tassazione degli Stati ove sono residenti le imprese correlate le quali agiscono come controparti della società italiana nelle transazioni controllate.
Quindi, una volta verificata questa evidenza, l’Amministrazione dovrebbe dimostrare l’esistenza di un valore normale della transazione diverso dal corrispettivo applicato e quindi tale da produrre sull’impresa residente un incremento del risultato imponibile.
La Cassazione, riguardo a questa seconda fase della contestazione, richiama la necessità che la comparazione fra i prezzi in concreto applicati dalle parti ed il presunto valore normale dei beni o servizi, sia “fortemente contestualizzata sotto il profilo qualitativo, commerciale, temporale e locale”, così da essere finalizzata ad individuare un valore medio da cui dovrebbe essere tratto solo il “fattore destabilizzante della non concorrenzialità” del prezzo praticato.