Cessione di singoli beni o di ramo di azienda?
di Fabio LanduzziL’articolo 2555 cod. civ. definisce l’azienda come “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”; non si rinviene invece nell’ordinamento interno una definizione di “ramo di azienda” così che il riferimento va alla disciplina comunitaria, nella quale, l’articolo 2, lett. i), della Direttiva Cee 90/434, definisce il “ramo d’attività” come “il complesso degli elementi attivi e passivi di un settore di una società che costituiscono, dal punto di vista organizzativo, un’azienda indipendente, cioè un complesso capace di funzionare con i propri mezzi”.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea (decisione n. 50/91 del 13.10.1992) e della Corte di Cassazione (per tutte, sentenza n. 4319/1998) ha definito “ramo di attività” una qualsiasi parte dell’impresa che rappresenta “un insieme organizzato di beni e di persone idonei a concorrere alla realizzazione di una determinata attività”.
Vi sono alcuni elementi che di norma si rinvengono nella nozione di azienda e di ramo di azienda, e che concorrono così a distinguere quando l’oggetto di una compravendita è, appunto, l’azienda o un suo ramo, oppure un insieme di beni non costituenti un compendio aziendale. Precisamente:
- il complesso di beni;
- l’organizzazione;
- la preesistenza rispetto al trasferimento;
- l’autonomia funzionale;
- il fine per l’esercizio dell’impresa.
Possiamo riassumere identificando due elementi imprescindibili che contraddistinguono la definizione di azienda e di ramo di azienda:
- l’elemento oggettivo (il complesso di beni);
- l’elemento finalistico (l’organizzazione).
La prassi dell’Amministrazione Finanziaria (si vedano, a titolo esemplificativo: risposte n. 81, 432 e 466 del 2019; risoluzione AdE 33/E/2012; circolare n. 320/1997) si è sempre posta in questa direzione, identificando nell’azienda una “universitas di beni materiali, immateriali e di rapporti giuridico-economici, suscettibili di consentire l’esercizio dell’attività di impresa”.
La giurisprudenza della Cassazione (sentenze n. 1769/2018 e n. 9575/2016) ha da parte sua sottolineato come all’esistenza del “complesso di beni” deve accompagnarsi il fatto che lo stesso sia “funzionante”, nel significato che esso manifesti una operatività aziendale, seppure anche solo allo stato potenziale, da intendersi come idoneità ad essere utilizzato per l’esercizio dell’impresa (si parla di “insieme organicamente finalizzato ex ante all’esercizio di attività di impresa”).
Perché l’oggetto della cessione si qualifichi come ramo di azienda occorre che vi sia “l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali e organizzativi e quindi di svolgere, senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione finalizzati nell’ambito dell’impresa cedente”.
Ebbene, a fronte di questa chiara indicazione di prassi, di giurisprudenza e di dottrina, non può che destare molte perplessità il contenuto della risposta all’istanza di interpello n. 546/2020 in cui l’Amministrazione Finanziaria qualifica come ramo di azienda l’oggetto di un negozio giuridico di vendita di cui erano parte esclusivamente marchi (e proprietà intellettuali come formule, disegni e domini) e rimanenze di magazzino; nel citato documento si legge che si tratterebbe di una “serie di elementi che, combinati tra loro, possono prefigurare un’organizzazione potenzialmente idonea, nel suo complesso, allo svolgimento di un’attività economica a sé stante”.
Il connotato dell’operazione sottoposta al vaglio dell’Amministrazione che sembra indurre quest’ultima a formulare questa risposta sembra risiedere nel fatto che, trasferendo una “serie di marchi” più altre proprietà intellettuali e rimanenze di magazzino, il cessionario addiverrebbe ad “acquisire il segmento di mercato” della società cedente, così da proseguire l’attività precedentemente svolta dal cedente e conservandone “la sua identità funzionale anche successivamente al suo trasferimento”.
Come premesso, la conclusione affermata in questa Risposta non convince, anche perché si pone in antitesi con numerosi precedenti di prassi in cui è stato correttamente riconosciuto che, affinché si configuri un trasferimento di azienda, non è sufficiente la cessione di beni che possono essere suscettibili di una astratta capacità produttiva, bensì si rende necessario che venga trasferita una organizzazione “autonoma, capace, ossia, di mantenere ininterrotta la propria autonomia nonostante la separazione dal più vasto complesso aziendale” (vedi risoluzione AdE 98/E/2003).
L’assenza dell’elemento organizzativo è quindi determinante nell’escludere che si possa configurare una cessione di azienda.
In questo senso, la giurisprudenza di legittimità è molto chiara. Nella sentenza n. 1955/2015 la Cassazione ha affermato che “è nella organizzazione del complesso dei beni che va riconosciuta la componente immateriale caratteristica dell’azienda o di un suo ramo, atteso che i beni, singolarmente considerati, prospettano solo la loro specifica essenza, ma la loro “organizzazione” finalizzata alla produzione, conferisce al complesso dei beni il carattere di complementarietà necessario, perché possa attribuirsi ad essa la definizione di azienda”.
Rilievo decisivo all’elemento organizzativo, in ultimo, lo si ritrova anche nelle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 5087/2014) in cui si afferma che il concetto di azienda deve essere “ancorato a un’attività (l’organizzazione), a sua volta necessariamente qualificata in senso finalistico (l’impresa)”.