Cessione intra di beni in partenza dall’Italia ceduti da fornitore UE
di Marco PeiroloLe cessioni di beni esistenti in Italia, se poste in essere dal cedente di altro Stato membro nei confronti del cessionario soggetto Iva di un diverso Stato membro, devono essere fatturate, in regime di non imponibilità Iva di cui all’articolo 41, comma 1, lettera a), del D.L. 331/1993, dalla posizione Iva nazionale del cedente non residente.
Nella situazione considerata, non è infatti possibile ritenere che la fattura sia emessa direttamente dal cedente comunitario, vale a dire dalla posizione Iva attribuita dallo Stato di stabilimento, applicando il titolo di esenzione previsto per le cessioni intracomunitarie di beni.
Il dubbio potrebbe nascere dal contenuto dell’articolo 21, comma 6-bis, lettera a), del D.P.R. 633/1972, secondo cui “i soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato emettono la fattura anche per le tipologie di operazioni sottoelencate quando non sono soggette all’imposta ai sensi degli articoli da 7 a 7-septies e indicano, in luogo dell’ammontare dell’imposta, le seguenti annotazioni con l’eventuale specificazione della relativa norma comunitaria o nazionale: a) cessioni di beni e prestazioni di servizi, diverse da quelle di cui all’articolo 10, nn. da 1) a 4) e 9), effettuate nei confronti di un soggetto passivo che è debitore dell’imposta in un altro Stato membro dell’Unione europea, con l’annotazione «inversione contabile» (…)”.
Tale disposizione, come interpretata, da ultimo, dalla risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 21/E/2015, implica che la “nazionalità” della fattura sia quella dello Stato di stabilimento del cedente e non quella dello Stato in cui tale soggetto è soltanto identificato (nella specie, l’Italia), sicché nel caso in esame la fattura dovrebbe essere emessa dalla posizione Iva dello Stato in cui il cedente è stabilito, ferma restando l’applicazione dell’imposta nello Stato membro del cessionario.
Si tratta di una conclusione da respingere perché il citato articolo 21, comma 6-bis, lettera a), del D.P.R. 633/1972 fa riferimento alle operazioni che “non sono soggette all’imposta ai sensi degli articoli da 7 a 7-septies”, cioè alle cessioni di beni e prestazioni di servizi escluse da Iva per carenza del presupposto territoriale. La norma, in particolare, si riferisce alle operazioni che – in base ai parametri convenzionali fissati dagli articoli da 7-ter a 7-septies – si considerano effettuate nello Stato membro in cui il destinatario del bene o del servizio è debitore della relativa imposta.
L’errore di una siffatta impostazione è evidente se si presta attenzione alla circostanza che la cessione posta in essere nel caso in questione non può assumersi come effettuata nello Stato membro di destinazione dei beni, essendo ricollegata allo Stato di origine dei beni stessi, in conformità con l’articolo 32 della Direttiva 2006/112/CE (corrispondente all’articolo 7-bis, comma 1, del D.P.R. 633/1972). È in Italia, quindi, che i beni, siccome “fisicamente” presenti al momento del trasporto/spedizione a destinazione del cliente non residente, acquisiscono rilevanza ai fini dell’adempimento degli obblighi “formali” dell’Iva collegati alla fatturazione, dichiarazione, etc. e questa conclusione vale non solo per le cessioni nazionali, ma anche per quelle intracomunitarie e all’esportazione, come correttamente evidenziato dalla Corte di giustizia nella sentenza Fonderie 2A (causa C-446/13 del 2014).
Del resto, l’operazione oggetto di fatturazione nella fattispecie in questione ha matrice intracomunitaria e non interna allo Stato membro del cessionario, laddove l’acquirente, pur restando il debitore della relativa imposta, da assolvere con il meccanismo del reverse charge, interviene in qualità di destinatario di un acquisto intracomunitario che ha come controparte il cedente identificato ai fini IVA in Italia, essendo dal territorio nazionale che i beni partono in direzione del soggetto acquirente.
L’articolo 219-bis, punto 2), lettera a), della Direttiva 2006/112/CE non consente di giungere ad una diversa conclusione, essendo stata fedelmente trasposta nella legislazione italiana, come può desumersi dalla lettura non solo dell’articolo 21, comma 6-bis, lettera a), del D.P.R. 633/1972, ma anche, specularmente, cioè dal lato del cessionario/committente, dell’articolo 17, comma 2, dello stesso D.P.R. 633/1972.
La disposizione comunitaria prevede che “la fatturazione è soggetta alle norme applicabili nello Stato membro in cui il fornitore/prestatore ha stabilito la sede della propria attività economica (…) quando (…) il fornitore/prestatore non è stabilito nello Stato membro in cui si considera effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi (…) e il debitore dell’Iva è l’acquirente dei beni o il destinatario dei servizi”.
Tale previsione intende esplicitare che la “bandiera” della fattura relativa ad una operazione effettuata nello Stato membro del cessionario, per la quale quest’ultimo assume lo status di debitore d’imposta, è quella dello Stato membro di stabilimento del cedente a condizione che tale soggetto non sia stabilito nello Stato membro in cui si considera effettuata la cessione, ove deve essere stabilito o quanto meno identificato il destinatario del bene o servizio tenuto ad assolvere l’imposta con il sistema del reverse charge. Ne discende, come anticipato, che la fattura non può essere emessa dalla posizione Iva dello Stato di stabilimento del cedente nell’ipotesi, oggetto di esame, in cui i beni si trovano in Italia al momento del trasporto/spedizione a destinazione del cessionario comunitario e danno luogo ad una operazione che non assume natura interna allo Stato di destinazione, ma intracomunitaria, con luogo di cessione fissato in Italia.