Cessioni intracomunitarie e dichiarazione di arrivo della merce
di Roberto CurcuA quasi due anni dall’entrata in vigore del Regolamento Europeo 1912/2018, che ha introdotto delle presunzioni a favore del contribuente per dimostrare l’arrivo della merce in altro Paese comunitario diverso da quello di partenza, iniziano le prime avvisaglie di contestazione da parte degli organi verificatori nei confronti delle aziende italiane, circa la regolarità della fatturazione con la non imponibilità prevista dall’articolo 41 D.L. 331/1993.
In particolare, le contestazioni riguardano le cessioni che vengono effettuate con la clausola “franco fabbrica”, nelle quali il trasporto della merce fuori dall’Italia è organizzato dal cliente comunitario.
Come è stato spiegato con la circolare AdE 12/E/2020, con l’entrata in vigore del Regolamento, il contribuente ha la facoltà di scegliere se dimostrare l’arrivo a destino della merce seguendo le indicazioni del Regolamento Europeo 282/2011, come emendato dal Regolamento 1912/2018, oppure seguendo le indicazioni della prassi nazionale.
Anzi, considerato che – correttamente – l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che le modalità di dimostrazione dell’uscita della merce dettate dal Regolamento possono essere utilizzate dal contribuente anche prima della sua efficacia, anche per il passato è possibile scegliere se applicare le disposizioni del Regolamento o quelle della prassi nazionale.
La precisazione circa la “retroattività” del Regolamento, indicata dalla circolare AdE 12/E/2020, non è prevista dalla norma, ma ad avviso di chi scrive è solo un modo “elegante” con il quale la direzione centrale dell’Agenzia delle Entrate informa i propri verificatori che, anche per le annualità precedenti il 2020, i rilievi fatti nei confronti di soggetti che sono in grado di dimostrare l’uscita della merce secondo le indicazioni del Regolamento avrebbero scarse possibilità di successo in contenzioso. Infatti, che un giudice nazionale consideri per gli anni antecedenti il 2020 non sufficienti delle prove, quando il legislatore comunitario le considera tali dagli anni 2020 in poi, sarebbe una cosa abbastanza curiosa…
Nelle vendite fatte con il trasporto a carico del cliente estero (clausola Incoterms EXW o FCA), risulta però di difficile applicazione il Regolamento, per il quale sarebbero richiesti una CMR firmata dal trasportatore ed un ulteriore documento, che generalmente è in possesso dell’acquirente e che difficilmente viene condiviso con il venditore.
Infatti, questo documento potrebbe essere la fattura del trasportatore (emessa verso il cliente estero), o il documento bancario che attesta il pagamento del trasporto (emesso dalla banca del cliente estero), e quindi documenti che difficilmente il cessionario comunitario condivide con l’impresa italiana.
Inoltre, in tali tipologie di vendite, il Regolamento prevede che debba essere rilasciata dal cliente una “dichiarazione di ricezione della merce”, contenente determinate informazioni, quali le date di arrivo delle merci, le qualifiche delle persone che firmano la dichiarazione, ecc…
Seguendo le indicazioni della prassi nazionale, invece, la prova per dimostrare l’arrivo della merce in altro Paese UE è data da una serie di documenti, quali le fatture di vendita, i documenti di incasso dei corrispettivi, la corrispondenza commerciale, i modelli Intrastat presentati, ed un documento con il quale il cliente conferma l’avvenuta ricezione della merce. A tale riguardo, tale documento può essere costituito, alternativamente, da:
- la stessa CMR con la quale è stata caricata la merce sul mezzo del trasportatore, e firmata anche da quest’ultimo;
- un documento proveniente dal sistema informatico del vettore;
- una dichiarazione di ricezione della merce da parte del cliente.
Evidenziamo che il documento elencato al punto 1 è di difficile reperimento nelle vendite alle grandi aziende, per via delle procedure gestionali che pongono in essere, e materialmente impossibile da reperire tutte le volte che il trasporto avviene con avvicendamento di trasportatori, quali ad esempio i trasporti combinati.
Il documento di cui al punto 2, è di difficile reperimento nel caso in cui il corriere sia stato incaricato dal cliente, salvo che lo stesso non conceda al venditore italiano i codici per l’accesso al sistema informatico del vettore, relativi alla singola spedizione.
La prassi maggiormente impiegata dalle aziende strutturate che lavorano con aziende altrettanto strutturate è quindi quella di ottenere una dichiarazione di ricezione della merce.
A tale riguardo, il verificatore potrebbe essere erroneamente nella convinzione che tale dichiarazione di ricezione debba necessariamente avere le caratteristiche previste dal Regolamento, ma la cosa, ad avviso di chi scrive, non sta in questi termini.
Come è stato infatti precisato dalla Agenzia delle Entrate nella risposta ad istanza di interpello n. 100/2019, è sufficiente che tale dichiarazione contenga, oltre agli estremi delle fatture di vendita, la dichiarazione del cliente di ricezione della stessa in altro Paese membro, e l’anno di ricezione; in sostanza, non è chiesta né la data esatta di ricezione della merce, né il luogo esatto di ricezione.
Per quanto riguarda la sottoscrizione della stessa, non è precisato chi debba sottoscriverla, lasciando intendere che qualunque soggetto con la conoscenza circa la ricezione della merce ha la possibilità di sottoscriverla; nella dichiarazione di ricezione prevista dalla prassi nazionale, quindi, non è richiesta “l’identificazione della persona che accetta i beni per conto dell’acquirente”, come invece sarebbe previsto dalla normativa comunitaria.
Ciò premesso, come anche chiarito nella stessa circolare 12/E/2020 dell’Agenzia delle Entrate, l’idoneità dei documenti presentati dal contribuente, nel caso in cui questi ritenga di provare l’uscita della merce secondo le indicazioni della prassi nazionale, è soggetta alla valutazione, caso per caso, da parte dell’Amministrazione finanziaria.
La stessa, infatti deve tenere conto di certi elementi che possono pregiudicare la validità dei documenti presentati, in particolare nei casi in cui vi siano indici di frode (segnalazioni da parte dell’Autorità fiscale del Paese del cliente, clienti occasionali, cessioni di beni suscettibili di vendite “in nero” al consumatore finale, trasporti effettuati in proprio o con trasportatori inaffidabili, pagamenti in contanti, ecc…).
In sostanza, chi scrive ritiene che le aziende non a rischio frode che chiedono al cliente il rilascio di una certificazione di arrivo della merce, non siano obbligate ad utilizzare il fac simile previsto dal Regolamento (che molte aziende estere non restituirebbero compilato), ma possano utilizzare forme più semplificate e cumulative di più operazioni.
Quanto alla sottoscrizione di tale dichiarazione, è facile sostenere che una dichiarazione non sottoscritta proveniente dallo stesso indirizzo mail con il quale ordinariamente si comunica con il cliente sia più affidabile di dichiarazioni con firma autografa del legale rappresentante del cliente per le quali non è dato sapere le modalità di ricezione. In sostanza, chi scrive suggerisce di conservare le mail alle quali è allegata la dichiarazione di ricezione.