Comunione de residuo: il diritto dell’altro coniuge sull’impresa individuale del coniuge imprenditore ha natura obbligatoria e non reale
di Angelo GinexLe Sezioni Unite, con sentenza n. 15889/2022, sono intervenute per la prima volta sulla vexata quaestio concernente la qualificazione giuridica del diritto del coniuge non imprenditore sui beni risultanti dalla comunione de residuo ex articolo 178, cod. civ. Più precisamente esse hanno dovuto chiarire se, al momento dello scioglimento del regime di comunione legale tra coniugi, la pretesa dell’altro coniuge sull’impresa individuale del coniuge imprenditore costituita dopo il matrimonio abbia natura reale, configurando una situazione di contitolarità sui beni facenti parte dell’impresa, oppure natura obbligatoria, originando un semplice diritto di credito alla metà del valore di detta azienda.
Introduzione
La qualificazione in termini di natura obbligatoria o reale, allo scioglimento del regime di comunione legale ex articolo 177, cod. civ., del diritto dell’altro coniuge sull’impresa individuale del coniuge imprenditore, è suscettibile di produrre differenti effetti di grandissimo rilievo pratico.
La materia è disciplinata dall’articolo 178, cod. civ., il quale ha suscitato nel tempo molteplici dubbi interpretativi, prevedendo testualmente che i beni strumentali destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi, costituita dopo il matrimonio, si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa.
Tra gli altri, ai fini che qui interessano, si segnala il dubbio che gli spazi di autonomia del coniuge imprenditore nella gestione dell’impresa individuale dallo stesso costituita dopo il matrimonio, così come la garanzia spettante ai creditori di tale impresa, potrebbero essere menomati dal regime di comunione legale tra coniugi, laddove allo scioglimento di detta comunione si dovesse riconoscere al coniuge dell’imprenditore un diritto alla metà dell’azienda (natura reale) e non un mero diritto di credito (natura obbligatoria) ai sensi dell’articolo 178, cod. civ..
La tematica è stata affrontata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 15889/2022, dopo che la II sezione civile vi ha ravvisato una questione di massima di particolare importanza, considerato che la sua soluzione è in grado di incidere sia sul regime di circolazione dell’impresa (vedi, atti di disposizione dei singoli beni o dell’azienda, massa da dividere, etc.), sia sulla garanzia spettante ai creditori dell’imprenditore.
Situazione di contitolarità reale sui beni risultanti dalla comunione de residuo
La vicenda affrontata dalle Sezioni Unite nella pronuncia sopra indicata trae origine da una complessa controversia insorta tra 2 ex coniugi.
In particolare, la ex moglie di un imprenditore conveniva quest’ultimo in giudizio notificandogli apposito atto di citazione con cui sosteneva, tra le altre cose, di essere comproprietaria, per metà, di tutti i beni mobili dell’impresa individuale che l’ex coniuge aveva avviato in proprio, ma comunque dopo aver contratto matrimonio (ivi compresi gli utili, gli incrementi, le attrezzature, nonché qualsiasi altra posta patrimoniale ancora esistente all’atto dello scioglimento della comunione).
In virtù di ciò chiedeva la divisione di tutti i beni aziendali intestati all’ex marito, nonché l’accertamento degli utili dallo stesso percepiti e percipiendi, oltre che dell’equivalente pecuniario riconducibile agli eventuali beni aziendali che fossero stati alienati dal medesimo convenuto successivamente all’intervenuto scioglimento della comunione legale.
Il convenuto si costituiva in giudizio invocando il rigetto della domanda spiegata dalla ex moglie e deducendo, tra le altre cose, che, qualora fosse stata condivisa la prospettazione di quanto sostenuto in citazione dall’ex coniuge, occorreva tener conto che l’impresa individuale da lui esercitata, fin dal momento dello scioglimento della comunione legale, presentava un’esposizione per passività di notevole ammontare.
Pertanto, chiedeva che l’attrice venisse condannata al pagamento della metà di tutti gli oneri correlati alla realizzazione delle opere edificate sugli immobili di sua proprietà esclusiva, nonché al rimborso a proprio favore di tutti gli oneri che erano derivati dall’esecuzione di quelle opere da parte di soggetti terzi, ai sensi degli articoli 934 e 935, cod. civ..
Il Tribunale adito, con sentenza non definitiva, dichiarava che l’attrice era proprietaria del 50% dei beni immobili oggetto del contendere, in quanto nella fattispecie esaminata doveva applicarsi il disposto normativo contenuto nell’articolo 178, cod. civ., e disponeva la prosecuzione del giudizio per le conseguenti operazioni divisionali.
Successivamente il medesimo Tribunale, preso atto che l’attrice aveva rinunciato, in sede di comparsa conclusionale, alle azioni di assegnazione della metà dei beni mobili dell’impresa individuale dell’ex marito, oltre che alla liquidazione dei frutti e degli utili maturati, dallo stesso percepiti e percepibili per effetto del godimento esclusivo della ridetta impresa, con sentenza definitiva, dichiarava esecutivo il progetto di divisione approntato dal consulente tecnico d’ufficio nella propria relazione depositata in giudizio e, per l’effetto, assegnava all’attrice taluni beni (più precisamente, il complesso artigianale e relative pertinenze) con l’obbligo di versare all’ex marito un conguaglio in denaro.
Quest’ultimo proponeva appello cui resisteva l’ex moglie avanzando gravame incidentale.
L’adita Corte di Appello, non definitivamente pronunciando sull’appello principale e su quello incidentale, accoglieva per quanto di ragione l’appello dell’ex marito e, in parziale riforma della sentenza di primo grado (che comunque confermava con riferimento all’applicazione dell’articolo 178, cod. civ. e all’esistenza della comunione “de residuo”), dichiarava che, per effetto dello scioglimento dell’anzidetta comunione, l’ex moglie era titolare di un diritto di credito corrispondente al 50% del valore dei beni costituenti l’impresa esercitata a titolo personale dall’ex coniuge durante il matrimonio.
Inoltre la medesima disponeva, con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio di appello ai fini dell’accertamento in concreto dell’esistenza e dell’entità del credito, nonché dei relativi frutti, rilevando come i beni da dividere avrebbero dovuto considerarsi inseriti nella realtà produttiva dell’azienda, al cui esercizio erano destinati, ragion per cui l’incremento residuo, del quale l’ex moglie avrebbe dovuto beneficiare “pro quota”, doveva tener conto dell’attivo sui beni aziendali da accertarsi alla data in cui si era verificato lo scioglimento della comunione.
Pertanto, ai fini della determinazione dell’entità dei crediti da attribuire in favore dell’attrice (sul presupposto che alla stessa si sarebbe dovuto, quindi, riconoscere solo una ragione di credito e non una situazione di contitolarità reale sui beni risultanti dalla comunione “de residuo”) e dei relativi frutti, la causa veniva rimessa sul ruolo per il suo ulteriore prosieguo istruttorio.
Ai fini che qui interessano è d’uopo rilevare altresì che la Corte d’Appello, dopo avere escluso che i beni per cui era causa fossero stati acquisiti per l’esercizio dell’attività di agente di commercio dell’ex marito, e che quindi potessero farsi rientrare nel novero dei beni personali ex articolo 179, cod. civ., trattandosi al contrario di beni destinati all’esercizio dell’impresa individuale dallo stesso gestita, e nel ribadire che si trattava quindi di beni oggetto della comunione de residuo, sosteneva la conclusione secondo cui l’attrice potesse vantare sugli stessi solo un diritto di credito.
In definitiva la citata sentenza affermava, richiamando una serie di argomentazioni, la tesi della natura obbligatoria del diritto del coniuge non titolare dell’azienda, il cui oggetto era il valore monetario dei beni che costituiscono l’azienda, dedotte le passività.
Comunione de residuo: il diritto del coniuge non imprenditore ha natura obbligatoria o reale?
Dalla lettura della pronuncia in esame emerge che l’ex moglie proponeva ricorso in Cassazione avverso la sentenza di secondo grado avanzando 3 motivi di doglianza.
Ai fini che qui interessano, occorre sottolineare che la ricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione, tra gli altri, degli articoli 177 e 178, cod. civ., sostenendo che l’esigenza di ripartire tra i coniugi pure i debiti gravanti sui beni destinati all’esercizio dell’impresa avrebbe dovuto considerarsi pienamente salvaguardata, anche riconoscendo al coniuge non imprenditore un diritto reale sugli stessi beni, senza necessità di trasformare il diritto di detto coniuge in un diritto di credito.
In particolare essa contestava che l’interpretazione accolta dalla Corte di appello sul significato e sulla portata da attribuirsi all’articolo 178, cod. civ., da un lato, risulterebbe totalmente contrastante con il tenore letterale della stessa norma e, dall’altro, condurrebbe a risultati inammissibili, in quanto gravemente pregiudizievoli per il coniuge non imprenditore, il quale è invece il soggetto principale che la legge vuole tutelare mediante l’istituto della comunione legale, anche a seguito dello scioglimento del vincolo coniugale.
Sotto altro profilo la ricorrente lamentava che, qualora si fosse qualificato il diritto del coniuge dell’imprenditore come diritto di credito, si sarebbe dovuto ritenere che, in caso di scioglimento della comunione “de residuo” ai sensi dell’articolo 178, cod. civ., il coniuge dell’imprenditore avrebbe avuto diritto di prelevare, in relazione all’articolo 192, comma 5, cod. civ., beni ricadenti nella predetta comunione sino a concorrenza del proprio diritto di credito, dovendosi reputare tale norma applicabile anche all’ipotesi della suddetta comunione.
Da ultimo la ricorrente chiedeva alla Suprema Corte, in via ancora più subordinata, di dichiarare che, al fine di evitare il concorso del credito del coniuge non imprenditore con quello degli altri creditori chirografari del coniuge imprenditore, al primo spettasse una causa di prelazione in applicazione della previsione di cui all’articolo 189, comma 2, cod. civ., sul presupposto che i beni della comunione de residuo vanno a comporre una massa separata dal patrimonio del coniuge imprenditore.
La II sezione civile della Corte di Cassazione, con ordinanza interlocutoria n. 28872/2021, ha rimesso il ricorso al primo presidente in vista della eventuale rimessione alle Sezioni Unite della questione di massima importanza concernente la natura del diritto vantato dal coniuge non titolare dell’azienda sui beni dell’azienda stessa ex articolo 178, cod. civ.
Altrimenti detto, con la citata ordinanza interlocutoria, la II sezione civile della Suprema Corte ha rimesso alle Sezioni Unite la questione di massima di particolare importanza relativa alla natura giuridica della c.d. “comunione de residuo”, posto che sia in dottrina sia in giurisprudenza si contendono il campo la tesi che attribuisce al coniuge non imprenditore un diritto di credito – pari alla metà del valore dell’azienda al momento dello scioglimento della comunione – e quella che invece opta per il riconoscimento di un diritto di compartecipazione alla titolarità dei singoli beni individuali.
Precedenti giurisprudenziali
Come anticipato, sulla questione giuridica prospettata sembrerebbe esserci un contrasto in seno alla giurisprudenza di legittimità.
In una delle prime occasioni in cui la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi su di una fattispecie in cui il regime di comunione legale era ancora in atto (cfr. Cassazione n. 7060/1986), essa ha mostrato di propendere per la tesi della natura obbligatoria del diritto del coniuge non imprenditore, affermando (sebbene a livello di obiter dictum) che:
“allo scioglimento della comunione, del valore di essi (ovvero dei beni in comunione de residuo, ndR) si dovrà tener conto in accredito al coniuge non imprenditore”.
La Suprema Corte sosterrebbe la tesi del diritto di credito anche in un’altra pronuncia abbastanza datata (cfr. Cassazione n. 4533/1997), nella quale ha valorizzato le esigenze sottese all’istituto della comunione de residuo, ovvero quelle del coniuge non imprenditore di vantare una legittima aspettativa sugli incrementi di valore di quei beni, e quelle del coniuge imprenditore di operare liberamente le sue scelte imprenditoriali.
Una più motivata adesione alla tesi della natura obbligatoria del diritto del coniuge non imprenditore, si rinviene in una pronuncia della sezione penale della Corte di Cassazione (cfr. Cassazione n. 42182/2010), nella quale si è reputata legittima la confisca per l’intero del complesso aziendale acquistato in regime di comunione legale dal solo coniuge imprenditore poi condannato, anche nel caso in cui l’attività imprenditoriale continui a essere svolta dopo lo scioglimento della comunione, in quanto bene strumentale rientrante nella cosiddetta comunione “de residuo”.
Nella specie si è ritenuto che al momento dello scioglimento della comunione legale dei beni, al coniuge non imprenditore spetti soltanto un diritto di credito di natura personale pari alla metà del valore dei beni facenti parte della comunione “de residuo”, sicché l’effettiva disponibilità, a titolo di proprietà, di detti beni può essere attribuita al coniuge non imprenditore solo se vi sia stata cessazione dell’impresa o se il bene sia stato sottratto alla sua originaria destinazione attraverso la richiesta di divisione dei beni oggetto della comunione, così che in difetto di tali condizioni il bene continua a essere soggetto a confisca per l’intero.
Nel senso della natura obbligatoria del diritto in parola vi sarebbe anche un ulteriore pronunciamento (cfr. Cassazione n. 6876/2013), ove la Suprema Corte ha affermato che:
“In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, il credito verso il coniuge socio di una società di persone a favore dell’altro coniuge in comunione “de residuo”, è esigibile al momento della separazione personale, che è causa dello scioglimento della comunione, ed è quantificabile nella metà del plusvalore realizzato a tale momento, consentendosi altrimenti al coniuge-socio di procrastinare “sine die” la liquidazione della società o di annullarne il valore patrimoniale”.
A tale ultimo precedente fa espresso riferimento anche una più recente pronuncia (cfr. Cassazione, ordinanza n. 4286/2018), ma solo al fine di confermare la regola secondo cui lo stesso concetto di comunione de residuo non può avere riguardo ai beni destinati a confluirvi senza tenere contemporaneamente conto anche delle passività che gravano su quei beni, essendo quindi necessario far riferimento alla diversa nozione di patrimonio netto.
Tuttavia, non mancano precedenti giurisprudenziali a sostegno della natura reale del diritto in esame.
In una prima pronuncia che si rinviene in tal senso (cfr. Cassazione n. 2680/2000), a fronte della rivendica della quota avanzata dalla moglie di un fallito su beni appresi dal curatore, la Corte di Cassazione ha ritenuto, ancorché a livello di obiter dictum, che il fallimento di uno dei coniugi in comunione legale:
“determina la comunione de residuo, sui beni destinati post nuptias all’esercizio dell’impresa, soltanto rispetto ai beni che dovessero residuare dopo la chiusura della procedura”.
Analogo principio è stato ribadito in un successivo pronunciamento (cfr. Cassazione, sentenza n. 7060/2004).
La tesi della natura reale del diritto in parola risulta sostenuta anche in una pronuncia più recente (cfr. Cassazione, sentenza n. 19567/2008), ove si è statuito che in tema di imposta sulle successioni, il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato – in regime di comunione legale dei beni – soltanto a uno dei coniugi, e nel quale siano affluiti proventi dell’attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente, entra a far parte della comunione legale dei beni, ai sensi dell’articolo 177, comma 1, lettera c), cod. civ. al momento dello scioglimento della stessa, determinato dalla morte, con la conseguente insorgenza, solo da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo, evidenziandosi che lo scioglimento attribuisce invero al coniuge superstite una contitolarità propria sulla comunione e, attesa la presunzione di parità delle quote, un diritto proprio, e non ereditario, sulla metà dei frutti e dei proventi residui, già esclusivi del coniuge defunto.
Ad analoghe conclusioni è pervenuto poi un ulteriore pronunciamento (cfr. Cassazione, sentenza n. 4393/2011), nel quale si è affermato che, siccome al momento della morte del coniuge si scioglie la comunione legale sui titoli in deposito presso banche e anche la comunione de residuo sui saldi attivi dei depositi in conto corrente, l’attivo ereditario, sul quale determinare l’imposta di successione, è costituito soltanto dal 50% delle disponibilità bancarie, pure se intestate al solo de cuius.
A tale ultimo precedente ha fatto espresso riferimento anche una più recente pronuncia (cfr. Cassazione sentenza n. 13760/2015), ove la Suprema Corte, in merito all’azione esperita dall’ex coniuge nei confronti dell’erede testamentario e fratello dell’altro coniuge, con cui si chiedeva che venisse accertata la spettanza ai sensi e per gli effetti dell’articolo 177, lettera b) e c), cod. civ. della metà degli importi relativi ai rapporti di credito con un istituto bancario, in quanto facenti parte della comunione de residuo, ancorché la natura di tale comunione non fosse oggetto di specifica censura, ha ricostruito le varie tesi affacciatesi in dottrina e in giurisprudenza, e, senza prendere espressa posizione, ha richiamato il principio statuito con la già citata sentenza n. 4393/2011.
Da ultimo occorre sottolineare che in relazione al prospettato contrasto giurisprudenziale, i giudici di vertice hanno rilevato che in verità, la questione giuridica in esame non è mai stata approfondita nello specifico dalla giurisprudenza di legittimità, in quanto la risposta di volta in volta fornita, in un senso ovvero nell’altro, appare molto spesso funzionale a un’immediata risoluzione del caso all’esame. Difatti nella pronuncia in rassegna essa ha precisato che:
“Il panorama della dottrina e della giurisprudenza come appena offerto consente di affermare che la questione oggetto dell’ordinanza di rimessione è tra quella maggiormente dibattute ed è priva ancora di una risposta soddisfacente da parte di questa Corte, ancorché siano decorsi oltre quaranta anni dalla novella del 1975, emergendo proprio dalla giurisprudenza segnalata come le soluzioni sinora date siano spesso prive di una adeguata ponderazione e vedano raggiunti esiti evidentemente contrapposti, senza che lo sviluppo cronologico delle decisioni possa far propendere per una evoluzione consapevole della giurisprudenza verso l’una o l’altra soluzione”.
Preferenza per la tesi della natura creditizia quale bilanciamento tra le esigenze solidaristiche e gli spazi di autonomia del coniuge imprenditore
Come si avrà modo di approfondire più avanti, nella pronuncia in rassegna le Sezioni Unite sono giunte alla conclusione che la questione oggetto dell’ordinanza di rimessione dovesse essere decisa optando per la tesi della natura obbligatoria del diritto nascente dalla comunione de residuo.
In particolare, i giudici di vertice hanno ritenuto che al coniuge non imprenditore debba essere riconosciuto un diritto di compartecipazione sul piano creditizio, pari alla metà dell’ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo, ovvero del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività.
Difatti è stato affermato il seguente principio di diritto:
“Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella c.d. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data”.
Il decisum delle Sezioni Unite affonda le sue radici nella riforma del diritto di famiglia operata dalla L. 151/1975 e, in particolare, nel nuovo regime patrimoniale dei coniugi (ovvero la comunione legale), istituto concepito al fine di raggiungere un auspicato bilanciamento tra il principio solidaristico, che dovrebbe informare la vita coniugale (articolo 29, Costituzione), da un lato, e la tutela della proprietà privata e della remunerazione del lavoro, dall’altro (articoli 35, 41 e 42, Costituzione).
In particolare, i giudici di vertice hanno rammentato che la scelta del regime di comunione legale tra coniugi trova fondamento nel concetto di famiglia come “consortium omnis vitae”, nonché in una specifica esigenza di tutela del coniuge economicamente e socialmente più “debole”, in funzione complementare rispetto al sistema degli obblighi nascenti dal matrimonio e incidenti, direttamente o indirettamente, sul patrimonio dei coniugi.
Non va dimenticato però – ha sottolineato la Suprema Corte – che, se, da un lato, l’istituto in esame è stato concepito con l’intento di garantire l’uguaglianza delle sorti economiche dei coniugi in relazione agli eventi verificatisi dopo il matrimonio, dall’altro lato il Legislatore della novella si è preoccupato anche di assicurare al singolo coniuge impegnato nell’esercizio delle proprie attività professionali o imprenditoriali un adeguato spazio di autonomia che comprendesse, più in generale, la gestione dei propri redditi da lavoro così come i frutti ricavati dai beni personali. Così come testualmente precisato nella pronuncia in rassegna:
“La risposta è stata quindi quella di prevedere accanto ai beni che ricadono in comunione immediata, e che entrano cioè nel patrimonio comune al momento del loro acquisto, una serie di beni che ricadono in comunione de residuo, restando quindi personali durante la vigenza del regime patrimoniale legale, ma che sono attratti alla disciplina della comunione legale nella misura in cui gli stessi siano sussistenti al momento dello scioglimento della comunione (essendovi poi una serie di beni che nascono come personali e restano tali anche una volta cessata la comunione legale)”.
Al riguardo le Sezioni Unite hanno tuttavia precisato che l’instaurazione di una situazione di comunione de residuo è configurata nel sistema della riforma come evento incerto sia nell’an sia nel quantum, poiché il diritto dell’altro coniuge sui beni che cadono in comunione de residuo sorge soltanto se gli stessi siano effettivamente e concretamente esistenti nel patrimonio del coniuge al momento dello scioglimento.
I giudici di vertice si sono poi soffermati sulla differente formulazione letterale delle norme che individuano i beni oggetto della comunione de residuo, evidenziando che, mentre l’articolo 177, comma 1, lettera b) e c), cod. civ. stabilisce che i beni ivi contemplati “costituiscono oggetto” della comunione, se e in quanto esistenti all’atto dello scioglimento, nell’articolo 178, cod. civ. i beni destinati all’esercizio dell’impresa costituita da uno dei coniugi dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa, anche costituita precedentemente, “si considerano oggetto”.
In particolare si è affermato che tali disposizioni, pur collocandosi all’interno di un regime ispirato alla tutela di esigenze solidaristiche tra coniugi, corroborano quanto prima accennato a proposito della necessità, avvertita dal Legislatore della riforma, di attribuire rilevanza anche alle legittime aspirazioni del singolo che non possono essere del tutto sacrificate, in quanto il matrimonio presuppone comunque il riconoscimento della persona e della sua sfera di autonomia come valore primario.
Ad adiuvandum le Sezioni Unite hanno sottolineato che la volontà di riservare spazi di autonomia al singolo coniuge trova ulteriore conferma nel disposto normativo contenuto nell’articolo 177, commi 1, lettera d), e 2, cod. civ. e nell’articolo 178, cod. civ., ove la distinzione tra beni destinati a ricadere immediatamente in comunione e quelli invece riservati alla comunione de residuo, avviene a seconda che la gestione dell’azienda sia comune ovvero individuale.
Per tali ragioni i giudici di vertice hanno ritenuto di adottare una soluzione di compromesso orientata a realizzare un equilibrato e necessario bilanciamento fra una serie di principi di rango costituzionale, quali il principio di uguaglianza dei cittadini (articolo 3, Costituzione), il principio solidaristico a tutela della famiglia (articolo 29, Costituzione), la remunerazione del lavoro (articolo 35, Costituzione) e la libertà di iniziativa economica (articolo 41, Costituzione).
Inoltre le Sezioni Unite hanno sottolineato che, in relazione ai beni oggetto della comunione de residuo ex articolo 178, cod. civ., va rilevata anche la finalità di non coinvolgere il coniuge non imprenditore nella posizione di responsabilità illimitata dell’altro, assicurando a quest’ultimo la piena libertà d’azione nell’esercizio della sua attività d’impresa.
Detto in altri termini, sarebbe inopportuno consentire un’estensione all’altro coniuge del rischio di impresa assunto dal coniuge imprenditore e, quindi, ammettere la responsabilità personale del primo verso i creditori dell’azienda ex articolo 2560, cod. civ., come se il coniuge dell’imprenditore fosse un acquirente pro quota dell’azienda stessa.
In definitiva appare evidente come il Legislatore abbia voluto preservare il potere di gestione dell’impresa da parte del coniuge imprenditore, consentendogli di investire a suo piacimento gli utili e di disporre liberamente di beni e utili aziendali, con la conseguenza che i beni oggetto della comunione de residuo, e in particolare quelli di cui all’articolo 178, cod. civ., non possano considerarsi comuni, almeno sino a quando non sia intervenuta una causa di scioglimento del regime legale.
Sulla scorta delle superiori considerazioni le Sezioni Unite hanno quindi ritenuto di prediligere la tesi della natura obbligatoria (rectius creditizia) del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, poiché questa, da un lato, non mortifica l’aspettativa vantata dal coniuge non imprenditore sui beni in oggetto e, dall’altro, garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell’autonomia gestionale dell’impresa individuale in capo al coniuge imprenditore, nelle ipotesi previste dall’articolo 178, cod. civ..
Da ultimo è stato evidenziato che tale tesi ha il pregio di evitare qualsivoglia pregiudizio altresì per le ragioni dei creditori, che vedrebbero diminuite le garanzie del proprio credito, così agevolando la sopravvivenza dell’impresa senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa.
In conclusione, al coniuge non imprenditore, al momento dello scioglimento della comunione legale, spetta un diritto di credito pari alla metà del valore attuale dell’azienda individuale del coniuge imprenditore, al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La rivista delle operazioni straordinarie“.