Il tema è tanto più delicato, laddove si constati che le tesi sostenute nel recente interpello dell’Agenzia delle entrate sono in aperto contrasto con quanto sostenuto dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16595/2023.
Anzitutto partiamo con il constatare che la rinunzia eseguita dal socio si presenta come un atto unilaterale recettizio, con il quale il titolare di un credito (socio) rinunzia al medesimo; quindi, non un atto collegiale della compagine societaria, bensì l’esercizio di un potere del singolo creditore di disporre del suo credito. La conseguenza contabile di tale atto è l’incremento del patrimonio netto tramite una riserva da apporto (capitale), senza che sia interessato il Conto economico da alcuna sopravvenienza attiva. In questo senso, si veda il documento Oic 28, § 36, che recita: “La rinuncia del credito da parte del socio – se dalle evidenze disponibili è desumibile che la natura della transazione è il rafforzamento patrimoniale della società – è trattata contabilmente alla stregua di un apporto di patrimonio a prescindere dalla natura originaria del credito. Pertanto, in tal caso la rinuncia del socio al suo diritto di credito trasforma il valore contabile del debito della società in una posta di patrimonio netto”.
Dato che il Conto economico non è interessato da alcuna scrittura, ove vi fosse la necessità di tassare tale incremento patrimoniale fruito dalla società, si dovrebbe operare una variazione in aumento nel modello Redditi. Per verificare la sussistenza di tale obbligo occorre esaminare il contenuto dell’articolo 88, comma 4-bis, Tuir. Tale norma statuisce che la rinunzia eseguita da parte dei soci a crediti da quest’ultimi vantati verso la società costituisce sopravvenienza attiva solo per la parte che eccede il valore fiscalmente riconosciuto di detto credito. A tal fine, il socio dovrebbe rilasciare alla società una dichiarazione sostitutiva di atto notorio con cui viene comunicato l’importo del valore fiscale di detto credito.
È a questo punto che interviene la sopra citata sentenza della Cassazione. Il punto di partenza dell’esame svolto dalla Suprema Corte è interrogarsi sull’applicabilità dell’istituto fiscale dell’incasso giuridico, che si manifesta quando a fronte di una irrilevanza fiscale della sopravvenuta insussistenza di un debito, si ha una irrilevanza fiscale anche in capo al rinunziante. In tutto ciò si realizza un salto di imposta derivante dalla deduzione originaria di un costo, il cui debito si rivela successivamente insussistente senza che nessun’altro tassi il venir meno del debito.
Ma tale ricostruzione viene meno, secondo il giudizio della Cassazione, con la novità legislativa del D.Lgs 147/2015, con il quale, a certe condizioni, la sopravvenienza attiva è invece tassabile per la società partecipata. Più precisamente, la tassazione scatta per la parte di credito rinunziato (e quindi debito azzerato per la società) che eccede il valore fiscale del credito in capo al socio. È qui che, a parere di chi scrive, nella pronuncia della Cassazione si ha un salto logico: il credito del socio persona fisica viene definito essere sempre pari a zero; valorizzazione che riguarderebbe tutti i crediti legati ad un reddito tassabile per cassa, mentre appare più razionale, a chi scrive, ritenere che il valore del credito detenuto da persone fisica a titolo originario (cioè non acquisito con corresponsione di prezzo), sia quello nominale.
Quindi, se il credito detenuto dal socio vale zero, la sua rinunzia genera una sopravvenienza attiva da tassare in capo alla società, con il che viene meno la tesi dell’incasso giuridico, mentre si pone un obbligo di inserimento di variazione in aumento nel modello redditi.
La tesi della Cassazione sopra esposta è, peraltro, in aperto contrasto con quanto recentemente affermato dalla Agenzia delle entrate, con l’interpello n. 59/E/2025. Con tale pronuncia, l’Agenzia anzitutto conferma (cfr. risoluzione n. 124/E/2017) che se il credito è vantato da un socio persona fisica non serve eseguire alcuna comunicazione alla società, poiché il credito è sempre pari al valore nominale. Quindi, il credito non vale zero, come sostiene la Cassazione, bensì esso assume fiscalmente valore pari al nominale; pertanto, rinunziando ad esso non emerge alcuna eccedenza che determinerebbe una tassazione in capo alla società. In conclusione, la società non deve tassare alcuna sopravvenienza attiva. Questa ricostruzione appare, a chi scrive, decisamente più convincente, specie in merito al valore fiscale del credito che non si capisce perché debba essere quantificato pari a zero, come ritiene la Cassazione.
È però sulla conclusione dell’interpello che non si può condividere l’assunto finale dell’Agenzia delle entrate. Infatti, viene richiamato il famigerato istituto dell’incasso giuridico, per cui il socio rinunziante dovrebbe sottoporre a tassazione un dividendo figurativo su cui grava, inoltre, l’obbligo di eseguire la ritenuta di imposta del 26%. Il ragionamento dell’Agenzia delle entrate è ormai noto: se si rinunzia ad un credito legato ad un reddito tassabile per cassa, la rinunzia comporta un incasso giuridico.
Ma se il sillogismo costo dedotto/credito rinunziato = incasso giuridico, può avere un senso logico in base al dogma di divieto di salti di imposta, diversamente tale automatismo risulta di difficile comprensione in assenza del costo dedotto. Infatti, nel caso del dividendo, la sua deliberazione sposta un componente dal Patrimonio netto al passivo, senza che il Conto economico sia mai stato interessato e, senza passaggio a Conto economico, nessun costo è deducibile. In assenza di costo dedotto, perde la sua forza persuasiva il correlato assunto dell’incasso giuridico.