Contratto a termine: dal D.L. Lavoro impulsi positivi alla contrattazione
di Luca VannoniNella fase attuale dell’economia italiana, caratterizzata da una forte instabilità del sistema manifatturiero e dove i tentativi di riqualificazione industriale si incrociano con lo sviluppo di nuove attività di servizi, il contratto “a tempo determinato” rappresenta sempre più uno strumento utile per calibrare la forza lavoro alle reali esigenze aziendali, così da consentire un maggior controllo del costo del lavoro, voce quanto mai fondamentale nella competitività sui mercati.
Le necessità del sistema imprenditoriale, tuttavia, si sono scontrate nell’ultimo decennio con un quadro normativo caratterizzato da continue riforme (spesso in contraddizione tra loro) e limitazioni abnormi rispetto alle legittime garanzie a tutela dei lavoratori: basti pensare a quanto disposto dalla cd. “Riforma Fornero” (L. n. 92/2012) in materia di stacchi tra una serie di contratti a termine conclusi dalle stesse parti, estesi a 60 e 90 giorni in via ordinaria: come se fosse possibile, ostacolando le assunzioni a termine, stimolare l’occupazione a tempo indeterminato, quando è ovvio, viceversa, che la stabilità della forza lavoro è legata alla stabilità dell’attività produttiva.
Non meno problematiche sono state le riforme che intendevano perseguire una politica di liberalizzazione, e qui ci si riferisce al D.Lgs. n.368/2001, dove il sistema di causali previgente, tassativamente tipizzato, è stato sostituito con le quattro clausole aperte rappresentate dalle ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive, la cui interpretazione e specificazione ha creato un acceso contenzioso, con esiti spesso negativi per le aziende.
È in tale contesto che deve essere letta l’ultima riforma sul contratto a termine operata dal D.L. n. 76/2013, meglio noto come “Decreto Lavoro” il cui giudizio, almeno sulla materia che qui ci interessa, è sicuramente positivo, considerando che si è cercato:
- da una parte, di ampliare le possibilità di utilizzo del contratto a termine senza la specificazione della causale, il c.d. “contratto acausale” (possibilità prevista in caso di primo rapporto di lavoro subordinato tra le parti), permettendo che intervenisse la contrattazione collettiva;
- dall’altra, di abbattere le inutili limitazioni sopra indicate, portando gli stacchi tra contratti a 10 e 20 giorni, sempre con la possibilità di deroga da parte della contrattazione collettiva e parallelamente eliminando gli altrettanto inutili adempimenti amministrativi introdotti dalla Riforma Fornero, come la comunicazione al Centro per l’Impiego della prosecuzione dell’attività.
Focalizzando l’attenzione sul nuovo ruolo riconosciuto alla contrattazione collettiva (anche a livello aziendale) le prime testimonianze applicative dimostrano la positività della riforma: il recente accordo concluso per il settore alimentare dal Federalimentari e CGIL, CISL e UIL in data 10 ottobre 2013 ha incrementato notevolmente le possibilità di utilizzo del contratto senza causale, legittimo anche nel secondo rapporto a tempo determinato con il medesimo datore di lavoro, purché:
- di durata non superiore a dodici mesi e comunque
- non superiore alla durata del primo contratto se riferito alle stesse mansioni.
In tali situazioni, è escluso l’obbligo di rispettare uno stacco tra un contratto e l’altro.
In materia di stacchi, inoltre, il limite ordinario è stato ridotto 5 e 10 giorni, a seconda della durata del rapporto (fino a sei mesi o superiore) e del tutto cancellato in caso di assunzioni per ragioni sostitutive.
Al di là dell’importanza per il settore alimentare, l’accordo rappresenta un punto di riferimento per la generalità delle imprese in quanto, come anticipato, il potere di intervento della contrattazione è rivolto anche al livello aziendale, dove relazioni sindacali non ideologiche, da entrambe le parti, possono generare un taglio su misura della regolamentazione dei contratti di lavoro, con tutti i benefici che ne discendono.