La Corte di Giustizia Ue conferma la legittimità delle presunzioni Iva
di Luigi FerrajoliLe presunzioni in materia di Iva (previste anche dalla legge italiana) sono legittime: non contrasta con l’ordinamento Ue la normativa nazionale secondo cui l’autorità fiscale può accertare l’imposta a carico del soggetto passivo presumendo che abbia venduto in evasione le merci che egli risulta avere acquistato occultando le relative fatture e che non sono state rinvenute nel magazzino dell’impresa. Lo ha stabilito la Corte di giustizia Ue nella sentenza pronunciata il 5 ottobre 2016, nella causa C-576/15.
Il procedimento è scaturito dall’iniziativa dei giudici bulgari in relazione ad una controversia su un accertamento Iva notificato a un commerciante che non aveva conservato né registrato alcune fatture di acquisto di merci che risultavano essere state emesse nei suoi confronti dai fornitori; non essendo le merci state rinvenute nel magazzino del commerciante all’atto del controllo, l’Amministrazione aveva legalmente presunto che fossero state vendute in evasione d’imposta, quantificando la base imponibile nella misura del prezzo d’acquisto aumentato del margine abitualmente praticato dall’imprenditore.
Nutrendo dubbi sulla normativa nazionale, i giudici decidevano di chiedere alla Corte di giustizia, in sostanza, se la normativa che consente un accertamento del genere sia compatibile con gli articoli 2, 9, 14, 73 e 273 della Direttiva Iva, nonché con i principi di neutralità e di proporzionalità.
Con la sentenza del 5 ottobre 2016, la Corte di Giustizia Ue ha affermato che, in base alle disposizioni comunitarie in materia di Iva, l’Amministrazione fiscale può presumere la sussistenza di una cessione di beni, laddove non rinvenga le merci nello stabilimento di un soggetto passivo e, in assenza di registrazioni contabili e fiscali, determinare la base imponibile delle vendite di tali merci in funzione degli elementi di fatto di cui essa dispone.
La Corte aggiunge, tuttavia, che spetta comunque al giudice del rinvio verificare che le disposizioni di tale normativa nazionale non vadano al di là di quanto è necessario al fine di assicurare l’esatta riscossione dell’imposta sul valore aggiunto e di evitare l’evasione. Il ragionamento dei giudici prende le mosse dall’articolo 242 della Direttiva Iva, secondo cui spetta ai soggetti passivi tenere una contabilità adeguata, in forza del quale è imposto ai soggetti passivi di presentare una dichiarazione in cui figurino tutti i dati necessari per determinare l’importo dell’Iva esigibile e di garantire l’esatta riscossione evitando l’evasione.
Non vi è dubbio che la sentenza in questione sul fronte domestico consenta il richiamo dell’articolo 1, comma 1, del D.P.R. 441/1997, secondo cui si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni, né in quelli dei suoi rappresentanti. Il successivo comma 2 del medesimo articolo 1 stabilisce inoltre che la presunzione di cui al comma 1 non opera se viene dimostrato che i beni stessi: sono stati impiegati per la produzione; sono stati perduti o distrutti; sono stati consegnati a terzi in lavorazione, deposito, comodato o in dipendenza di contratti estimatori, di contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, commissione o di altro titolo non traslativo della proprietà, ma non solo, anche con le bolle di accompagnamento debitamente firmate leggibili che indicano la merce trasferita in maniera analitica (natura, qualità, quantità). E, in effetti, la differenza tra le due entità evidenzia la quantità dei beni che, in via presuntiva, sono da considerare ceduti, con la conseguenza che ove le effettive consistenze finali risultino inferiori a quelle contabilizzate, i beni costituenti la differenza si considerano ceduti senza il pagamento dell’imposta.
Trattasi, è bene ricordarlo, di una presunzione legale iuris tantum, con la quale la legge dà per avvenuto un certo fatto fino alla dimostrazione del contrario, da fornirsi da parte del contribuente. In aggiunta, la Corte di Giustizia, nella sentenza relativa alla causa C-576/15, afferma che, fermi restando gli accertamenti che spettano al giudice del rinvio, in caso di dissimulazione di cessioni o di fatture, nonché in caso di assenza di una contabilità conforme alla normativa nazionale, l’Amministrazione fiscale può determinare la base imponibile Iva più vicina possibile al corrispettivo realmente percepito dal soggetto passivo in funzione degli elementi di cui dispone, quali:
- il tipo e la natura dell’attività effettivamente esercitata;
- i documenti recanti dati affidabili;
- l’importanza commerciale del luogo in cui l’attività è esercitata;
- i prodotti interessati e le entrate lorde;
- nonché altri elementi di prova idonei allo scopo.
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