4 Agosto 2014

Costruzioni da demolire: aree o fabbricati?

di Giovanni Valcarenghi
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Da poco si è conclusa l’ennesima campagna di rivalutazione delle aree e delle quote di partecipazione in società non quotate; se in relazione alle partecipazioni non ci sono particolari problematiche, una questione assai spinosa si è sviluppata in relazione alle aree. La risposta alla interrogazione parlamentare 5-03220 del 31 luglio 2014 ci dà allora l’occasione di ternare sul tema per approfondire il ragionamento.

Ci vogliamo interessare di coloro che avevano in animo di cedere un appezzamento di terreno sul quale insiste un fabbricato; per rendere meno problematica la vicenda e riuscire a far apprezzare al meglio la questione, assumiamo anche l’ipotesi che tale fabbricato sia un rudere, non utilizzato né utilizzabile, in quanto del tutto fatiscente e che l’area sia inserita in un piano di recupero, con possibilità di demolizione e ricostruzione.

Se un contribuente che si trova in questa situazione si fosse presentato nei nostri studi nei mesi scorsi chiedendoci quali conseguenze fiscali potessero derivare da una tale cessione, avremmo potuto legittimamente fornire la risposta seguendo due differenti approcci:

  1. ragionare come se oggetto della futura cessione fosse un fabbricato, avendo dunque riguardo alla mera risultanza catastale; in tal caso, ove il bene fosse stato posseduto da oltre 5 anni, oppure fosse pervenuto per successione, potevamo rassicurare il cliente confermandogli che nessuna plusvalenza tassabile sarebbe stata ritratta dalla cessione, quindi non vi era necessità di ipotizzare una rivalutazione;
  2. ragionare come se oggetto della cessione fosse un’area edificabile, trascurando le risultanze catastali ed evocando il contenuto della risoluzione 395/E/2008, nella quale l’Agenzia delle entrate riteneva che il reddito ritratto da una siffatta cessione fosse ascrivibile al comparto delle plusvalenze da cessioni di aree edificabili. In tal caso, la rivalutazione poteva essere una buona soluzione, quindi ci saremmo affrettati a consigliargli di trovare un tecnico che gli redigesse e giurasse una perizia, nella quale si andava ad individuare il cespite, considerandolo però come area, stimandone il valore alla data del 01.01.2014, magari al netto dei costi di demolizione e bonifica.

I due approcci, come appare evidente, risultano tra loro agli antipodi e, come noto, nessuno dei due può essere considerato completamente sicuro.

Il primo, osteggiato dalle Entrate, risulta corroborato da due recenti pronunce della Cassazione (4150/2014 e 15629/2014), mediante le quali i supremi Giudici hanno affermato che le conseguenze fiscali dell’atto non possono che essere determinate dalla situazione catastale dell’immobile, a prescindere da quelle che possono essere le future intenzioni (palesi o celate) delle parti. Qui appare evidente che il rischio di non avere consigliato la rivalutazione risiede nella necessità di mettere in conto un possibile contenzioso fiscale.

Il secondo, sostenuto dall’amministrazione ma, come evidente, contrario alla giurisprudenza sopra richiamata, espone comunque al rischio di aver consigliato una rivalutazione che, a posteriori, potrebbe rivelarsi del tutto inutile, con conseguente possibile contrasto con il cliente.

A fronte di questo panorama, allora, abbiamo seguito con attenzione l’interrogazione parlamentare presentata lo scorso 16 luglio e che ha avuto risposta giovedì scorso; va però da subito anticipato che le indicazioni fornite non consentono di raggiungere alcun grado di tranquillità.

Infatti, le Entrate, per bocca del Sottosegretario Enrico Zanetti, hanno fornito una risposta del tutto interlocutoria, dalla quale si evincono due concetti:

  • da un lato, il fatto che non si ritiene di aderire alle indicazioni della Cassazione, rimanendo in attesa di monitorare l’andamento futuro della giurisprudenza;
  • dall’altro, invece, si ritiene necessario dover indagare caso per caso, in base alle specifiche caratteristiche del bene ceduto, della sua situazione urbanistica e delle peculiarità delle parti cedenti ed acquirenti.

Nulla di fatto, dunque, con buona pace della certezza del diritto.

Quali conclusioni ricavare per il professionista ed il suo cliente? Una cosa è certa:

  • chi non ha rivalutato continuerà a temere di dover pagare le imposte sulla eventuale plusvalenza;
  • chi ha rivalutato, invece, continuerà a porsi il problema di avere versato delle imposte probabilmente non dovute.

Non ci resta che chiudere con un consiglio: fermo il fatto che restiamo convinti della bontà delle conclusioni della Cassazione (sostenendo che il trasformismo non può avere cittadinanza nel mondo fiscale), possiamo solo auspicarci che, ove l’Agenzia addivenga ad una soluzione in linea con la giurisprudenza, si preoccupi di affermare a chiare lettere che chi ha rivalutato (indotto a farlo da una posizione delle Entrate poi rivelatasi errata), può sospendere i versamenti rateali ancora dovuti ed ha diritto al rimborso delle rate già corrisposte.

Questa sarebbe la conferma dell’esistenza di un rapporto leale tra fisco e contribuente.