Crediti prescritti: la difficile deduzione fiscale della perdita
di Fabio LanduzziIl Principio contabile Oic 15, ai par. 71 e 72, dispone che la società cancella il credito dal bilancio quando, in prima ipotesi, i diritti contrattuali sui flussi finanziari derivanti dal credito si estinguono; una delle cause di estinzione dei diritti contrattuali può essere la prescrizione del credito, fattispecie che si presenta tutt’altro che infrequentemente, in particolare modo nei rapporti con soggetti esteri relativi a contratti che, secondo il diritto internazionale, sono regolati dalle leggi locali, le quali possono disporre termini di prescrizione assai più brevi di quelli di norma previsti dal nostro ordinamento.
Il tema è di sicura rilevanza fiscale, in quanto la cancellazione del credito dal bilancio, correttamente eseguita in ossequio al sopra citato Oic 15, in forza del principio di derivazione rafforzata ed in assenza di qualsivoglia elemento meramente valutativo, dovrebbe autorizzare a concludere per la piena rilevanza fiscale della perdita.
La posizione assunta al riguardo dall’Amministrazione Finanziaria è tuttavia sempre stata assai più restrittiva; in particolare, nella circolare 26/E/2013 è stato affermato che la prescrizione del diritto alla esazione del credito ha sì come effetto quello di “cristallizzare la perdita e di renderla definitiva” ma ciò non farebbe comunque venire meno il potere dell’Amministrazione di “contestare che l’inattività del creditore abbia corrisposto ad una effettiva volontà liberale”.
In altri termini, la posizione dell’Amministrazione sembra, da una parte, riconoscere che in linea di principio la prescrizione del credito costituisce un elemento certo e preciso di perdita dello stesso ma, dall’altra parte, se sottesa alla prescrizione vi è una inattività del creditore, si dovranno guardare ai fatti specifici ed alle circostanze del caso per accertare che essa non sia espressione di una “volontà liberale” del creditore stesso.
Questi principi sono stati ribaditi nella risposta all’istanza di interpello n. 197 del 2019, in cui il creditore vantava crediti verso imprese estere i quali, dopo la manifestazione dell’incaglio, erano stati oggetto solamente di iniziative commerciali informali, senza l’affidamento al recupero legale e senza l’intervento di atti formali che potessero interrompere la decorrenza del termine di prescrizione del relativo diritto alla esazione, peraltro soggetto, nell’ordinamento locale, applicabile al caso di specie, ad un periodo assai più breve di quello di norma applicabile secondo la legge italiana.
La società istante aveva motivato tale comportamento in ragione del fatto che si volevano preservare buone relazioni con la controparte, tenuto conto della sua rilevanza, e così si era deciso di evitare l’attivazione di formalità scritte.
La conclusione a cui è giunta l’Amministrazione nel caso di specie è stata quella di negare il riconoscimento della deducibilità della perdita su crediti rilevata nel bilancio d’esercizio, eccependo che il comportamento inerte della società rispetto alla riscossione dei crediti sarebbe stato espressivo di una “volontà liberale”, sancendo così la non deducibilità fiscale del componente negativo ai sensi dell’articolo 101, comma 5, Tuir.
La conclusione, secondo l’Amministrazione, sarebbe stata diversa qualora la società fosse stata in grado di dimostrare l’insolvenza del debitore, poiché in questa circostanza verrebbe meno ogni sotteso intento liberale alla inattività del creditore.
La posizione, confermata in questa più recente pubblicazione dell’Amministrazione finanziaria, appare quindi molto rigida riguardo alla fattispecie in esame, e anche un po’ lontana dalla dinamica reale dell’attività dell’impresa, in cui non di rado alcune scelte imprenditoriali possono essere motivate non da spirito di liberalità, che dovrebbe essere estraneo alla figura dell’imprenditore commerciale, bensì da una ricerca di un vantaggio indiretto, magari relazionale, anche a sacrificio immediato della profittabilità di un affare, ma volto nel tempo a consentire un recupero adeguato e quindi anche alla realizzazione futura di maggiori profitti.
Il rischio è che, estremizzando la posizione che deriva dalla prassi amministrativa succitata, si arrivi poi in concreto a rendere di fatto mai deducibili fiscalmente le perdite che derivano da crediti prescritti a cui, giocoforza, è sempre in parte sottesa una quantomeno parziale inattività protratta del creditore, senza che ciò debba necessariamente esprimere né una patologia e tantomeno uno spirito di liberalità verso soggetti terzi.