Criticità della riforma del terzo settore
di Guido MartinelliLasciando ai padri della riforma del terzo settore le considerazioni di carattere generale sugli obiettivi e sugli scopi del loro lavoro, mi sono divertito ad andare a ricercare, all’interno dei decreti delegati che l’hanno disciplinata, alcune piccole incongruenze o aspetti atipici rispetto ai comportamenti fino ad oggi adottati da parte degli enti senza scopo di lucro.
Partiamo dalla fase costitutiva. Mentre l’articolo 5 del D.Lgs. 112/2017 sull’impresa sociale afferma espressamente l’obbligo, indipendentemente dalla natura giuridica, della costituzione per atto pubblico per tale tipologia di soggetti, nulla viene previsto come forma obbligatoria per gli enti del terzo settore, se non diversamente previsto dal codice civile.
È pur vero che l’articolo 82, comma 3, del D.Lgs. 117/2017 dispone l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa in sede costitutiva e, addirittura, l’esenzione in caso di modifiche statutarie che abbiano “lo scopo di adeguare gli atti a modifiche o integrazioni normative” (e, in tal caso, sarebbe interessante capire da chi e come sarà giudicata l’esistenza della causa che esonera dal pagamento del tributo), ma personalmente non ho trovato la norma che imponga agli enti del terzo settore, se non la costituzione per atto pubblico, almeno la registrazione dello statuto. Addirittura l’articolo 22 che rubrica “Acquisto della personalità giuridica” prevede, in forma criptica, gli adempimenti del notaio “che ha ricevuto l’atto costitutivo di una associazione o di una fondazione del terzo settore” senza maggiori chiarimenti sulla natura di detto atto.
L’articolo 1 del decreto sull’impresa sociale prevede che queste possono essere costituite, anche, “nelle forme di cui al libro V del codice civile” purchè “senza scopo di lucro”.
Ma, salvo errori, le società di persone sono anch’esse enti ospitati in questo settore del codice. Ebbene, in questi casi, come è noto, la separazione del patrimonio tra società e soci è solo parziale. In questo caso come faremo a garantire l’assenza di scopo di lucro? Siamo proprio certi che sia possibile costituire imprese sociali in forma di società in nome collettivo?
Gli articoli 32 e 35 del CTS, rispettivamente per le organizzazioni di volontariato e per le imprese sociali, prevedono un numero minimo di associati.
Ma cosa accade se, nel corso dell’attività, si dovesse scendere sotto questo minimo? Si perde la qualifica tipizzata e si diventa ente del terzo settore come categoria di carattere generale. E se così fosse, questa mutazione, che comporta, ad esempio, l’iscrizione ad una diversa sezione del registro (vedi articolo 46 comma 1), da che data avrebbe luogo? E, in particolare, in quale momento andrebbe “evidenziata”. Nel corso dell’esercizio o solo alla fine del periodo di imposta? Questo perché la disciplina fiscale degli enti del terzo settore può essere difforme da quella delle organizzazioni di volontariato o di promozione sociale e, pertanto, avere contezza del quando accade la perdita del requisito costitutivo la natura di ente tipizzato appare decisivo anche per una corretta gestione della determinazione degli aspetti fiscali legati alla attività svolta.
Ma vediamo anche un altro aspetto legato a questi limiti numerici. L’articolo 33 per le ODV e l’articolo 36 per le APS indicano un numero massimo di “lavoratori” impiegabili in proporzione alle risorse volontarie o agli associati presenti. Va detto che non si specifica se debba trattarsi di lavoratori subordinati o autonomi, ma, proprio perché non indicato, potrebbero essere tutti dipendenti.
Se così fosse, nel momento in cui il numero dei volontari o degli associati calasse, imponendomi così, per rispettare la proporzione indicata (cinquanta per cento), di dover diminuire anche il numero dei lavoratori, per non correre il rischio di far venir meno uno dei requisiti per l’iscrizione nella sezione del volontariato o della protezione sociale, ciò potrebbe essere considerato giusta causa di licenziamento?
Ancora, mentre, ad esempio, l’articolo 87, comma 6, prevede, correttamente, che il rendiconto legato alla raccolta fondi sia redatto “entro quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio”, l’articolo 48, comma 3, prevede che i rendiconti devono “essere depositati entro il 30 giugno di ogni anno”. Ebbene, cosa accade per l’ente che avesse un esercizio coincidente, ad esempio, con l’anno scolastico? Potrà presentare l’ultimo bilancio approvato anche se di un esercizio che si potrebbe essere chiuso al 30 giugno precedente?
Ultima spigolatura: l’articolo 89, comma 4, novellando l’articolo 148 del Tuir, riduce il numero degli enti su base associativa, escludendo ad esempio le culturali, che possono godere della defiscalizzazione dei corrispettivi specifici versati dagli associati.
Analoga modifica non è stata adottata per il corrispondente articolo 4 del D.P.R. 633/1972 ai fini Iva. Potremo, pertanto, avere associazioni culturali che non siano associazioni di promozione sociale, per le quali le prestazioni specifiche verso associati avranno corrispettivi imponibili ai fini delle imposte dirette ma non soggetti ad Iva?
I dubbi sono tanti, meglio fermarsi qui.