Deducibilità di costi da operazioni soggettivamente inesistenti
di Luigi FerrajoliLa Corte di Cassazione è stata recentemente chiamata ad esprimersi ancora una volta in una ipotesi di costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti.
In particolare, nel caso in esame un soggetto titolare di una ditta individuale, nei confronti del quale erano stati emessi due avvisi di accertamento per IVA indebitamente detratta ed indeducibilità di costi riferiti ad operazioni ritenute soggettivamente inesistenti, aveva proposto ricorsi parzialmente accolti dalla competente CTP limitatamente ai recuperi delle imposte dirette, per mancanza di profili di reato.
L’appello principale del contribuente e quello dell’Ufficio venivano rigettati dalla CTR, che aveva così argomentato in relazione alle società emittenti le fatture:
- le predette erano prive di struttura organizzativa e carenti di personale;
- i prezzi non erano congrui a quelli di mercato;
- è insolito che si provveda al pagamento a mezzo assegni versati contestualmente all’emissione della fattura;
- il titolare della società venditrice aveva definito la propria posizione attraverso il patteggiamento in sede penale.
Tali elementi, secondo il Giudice Tributario, erano sufficienti per affermare non solo che l’appellante non aveva “adottato le misure idonee e necessarie per effettuare operazioni commerciali con società reali che correttamente operano a loro volta nel mercato”, ma che era finanche collusa con società che hanno operato solo per frodare il Fisco e avvantaggiarsi illecitamente nella concorrenza con altri soggetti operanti nel medesimo settore. In ogni caso, per quanto concerne l’inammissibilità della deduzione di costi da reato, la Commissione aveva ritenuto che la tesi dell’Ufficio non potesse essere accolta, perché “l’ipotesi di reato con la conseguente applicazione di quanto previsto dalla L. n. 289 del 2002, articolo 2, comma 8, va ascritta alle società venditrici”.
L’Agenzia proponeva quindi ricorso fondato su due motivi: violazione e falsa applicazione dell’articolo 14 comma 4 e 4-bis L. 537/1993 e motivazione contraddittoria ai sensi dell’articolo 360 c.p.c..
Con il primo motivo l’Ufficio evidenziava l’indeducibilità di costi e spese per fatti, atti o attività qualificabili come reato e che il contribuente, in quanto “colluso”, dovesse ritenersi concorrente nel reato con esclusione appunto della deducibilità dei costi.
Con il secondo motivo si lamentava che, nonostante la Commissione avesse ritenuto il contribuente colluso, avesse concluso per ascrivere il reato solo alle società venditrici.
Con la sentenza n. 21633 del 26.10.2016, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso ritenendo i motivi infondati.
Nel richiamare le disposizioni di cui al citato articolo 14, comma 4 e 4-bis, il Giudice di legittimità ha evidenziato che nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del Tuir, debbano essere ricompresi, se in essi classificabili, i proventi da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, se non già colpiti da sequestro o confisca penale.
Nella predetta determinazione dei redditi, ha sottolineato la Corte, “non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 c.p.”.
In caso di assoluzione o sentenza di non luogo a procedere, al contribuente spetterà il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione, con i relativi interessi.
Detto ciò, la Suprema Corte ha posto l’accento sul fatto che l’articolo 14, comma 4-bis, operi, quale jus superveniens, con efficacia retroattiva “in bonam partem” e che sul punto si versi in ipotesi di rilevabilità d’ufficio. Su queste basi, la Cassazione ha affermato il principio per cui “la nuova normativa comporta che, poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, i beni acquistati – di regola (e salvo il caso, ad esempio, in cui il “costo” sia consistito nel “compenso” versato all’emittente il falso documento) – non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, salvo prova contraria, per essere commercializzati, non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dell’effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costi relativi a dette operazioni”. Rimane, in ogni caso, necessario verificare, con riferimento ai criteri di effettività, competenza, inerenza, certezza, determinatezza o determinabilità, la concreta deducibilità dei costi stessi.
Posto che nei confronti del contribuente non si è ravvisato un accertamento di fatto nei termini indicati dalla norma sopra richiamata, nel caso di specie la Corte di Cassazione ha ritenuto che non possa ricorrere il presupposto della indeducibilità dei costi.