Dichiarazioni, occhio all’antieconomicità
di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
All’avvicinarsi delle dichiarazioni dei redditi l’attenzione è prioritariamente dedicata agli aspetti tecnici dei modelli dichiarativi e dei vari adempimenti collegati, in primo luogo il funzionamento (e ovviamente i risultati) degli studi di settore. Spesso, però, si perde di vista un assunto fondamentale che emerge dal dato dichiarativo: lo stesso è valutato dall’Amministrazione finanziaria per l’eventuale costruzione delle liste selettive ai fini del controllo, soprattutto in funzione di anomalie più o meno marcate rispetto alla normalità del settore di appartenenza e, più in generale, alla credibilità della posizione del contribuente. In tale direzione è l’antieconomicità a rappresentare l’arma più utilizzata dall’Amministrazione finanziaria, attesa anche la sua “forza probatoria” pur in presenza di dati contabili formalmente corretti. Trattasi di un elemento derivato dalla irrazionalità delle scelte aziendali valutate nel complesso, con riscontri che non possono essere superficiali e limitarsi a pochi parametri numerici, dovendo invece raggiungere un grado di attendibilità necessario per il convincimento dell’organo giudicante. La giurisprudenza della Corte di Cassazione è difatti ormai costante e la riprova la si scorge anche in ormai numerosissime sentenze, ripetute nel tempo, come nel caso della sentenza n. 28190/2013, laddove è stato precisato che “(…) grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione all’eventuale antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili (…)”.
Tali concetti sono stati ribaditi in due recenti sentenze, n. 7838 e 7863, entrambe depositate in cancelleria in data 17 aprile 2015.
Con la sentenza n. 7838, la suprema Corte, nel cassare la sentenza della CTR, evidenzia tra l’altro la necessità di valutare i dati oggettivi emersi in sede di controllo, come ad esempio il saldo negativo delle scritture contabili, che possono rappresentare una valida presunzione di maggior reddito non dichiarato, soprattutto quando trattasi di eventi ripetuti nel tempo come ad esempio la “gravità, intensità e ripetitività delle perdite, accompagnate dalla continuità dell’attività e quindi di esborsi di liquidità per il pagamento di fornitori e dipendenti”.
La sentenza n. 7863 di fatto ribadisce i medesimi concetti, accogliendo il ricorso dell’Amministrazione finanziaria in relazione alla ricostruzione induttiva fondata sull’applicazione di percentuali di ricarico medie, ritenute applicabili nelle casistiche in cui è comprovata la complessiva inattendibilità del contribuente, che nel caso analizzato risultava essere totalmente antieconomico sul fronte della gestione aziendale, con comunque un atteggiamento anomalo consistente nei continui investimenti dell’imprenditore in un’attività almeno all’apparenza non redditizia.
Al che le conclusioni sono abbastanza pacifiche: in presenza di ripetuti periodi d’imposta con risultati negativi o irrisori è lecito il dubbio, in chi controlla, che vi sia qualcosa di sospetto. Gli elementi più “evidenti” di tali patologie sono ad esempio il costante incremento delle rimanenze, collegato ad un crescente indebitamento verso le banche, ad un’esposizione dei soci (finanziamenti infruttiferi), non bilanciato da un’adeguata remunerazione, che addirittura in determinate situazioni risulta inferiore a quella corrisposta ai dipendenti, per non parlare di anomalie più gravi, come la “cassa negativa” oppure componenti negativi “dimenticati” (quote di ammortamento, costi capitalizzati non dedotti etc, per evitare risultati ancora più evidenti in negativo). Se è vero che in determinati frangenti la presenza di alcuni di tali indizi potrebbero non essere significativi (si pensi ad una fase di start-up, dove potrebbe essere naturale avere un elevato indebitamento e risultati non importanti), è altrettanto vero che in situazioni “standard” (magari un’azienda ormai sul mercato e senza palesi indici di crisi), gli stessi risultati sono a dir poco anomali e irrazionali sul piano della ordinaria condotta aziendale.
Il dato dichiarativo rappresenta, dunque, un adeguato “campanello d’allarme”. Se lo stesso appare a prima vista irrazionale, anche nell’ottica della continuità dei risultati, ecco che diviene necessario interrogarsi sulle ragioni dello stesso. L’uscita dalla crisi, la ristrutturazione dell’azienda, il rilancio della medesima, possono essere chiari elementi di giustificazione soprattutto se accompagnati da fatti concreti e finalizzati alla ripartenza: ad esempio, sarebbe irrazionale un nuovo periodo con clamorosi incrementi delle rimanenze finali o di componenti negativi di cui potrebbe farsi a meno. Viceversa, la programmazione di interventi finalizzati al miglioramento dei risultati aziendali, come una eventuale vendita straordinaria per ottenere liquidità e ridurre l’indebitamento verso le banche, darebbe il senso della volontà di uscita dalla crisi e, soprattutto, di una gestione aziendale economicamente valida.
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