Ovviamente le tesi difensive devono essere sostanziali, come rimarcato di recente dalla sentenza n. 18447, depositata in data 21 settembre 2016, in cui l’accertamento da studi di settore è stato ritenuto dai Supremi Giudici non sufficiente posto lo svolgimento, da parte del contribuente, di un’attività di lavoro dipendente a tempo pieno, con dunque scarso tempo residuo da poter dedicare all’attività d’impresa.
La posizione appena sottolineata non è affatto nuova, sia in termini positivi che negativi. Sia sufficiente ricordare, come tesi favorevoli al fisco, anzitutto la sentenza n. 8626 depositata l’11 aprile 2014, con cui la Suprema Corte ha evidenziato come non siano attendibili in fase difensiva semplici riferimenti generici e non contestualizzati (come il richiamo all’esercizio sia di attività all’ingrosso che al dettaglio, la forte concorrenza del settore, la presenza di perdite per il calo fisiologico dei prodotti, eccetera), essendo invece necessari elementi fattuali e concreti. Allo stesso tempo, è necessario che i dati del contribuente siano veritieri. Sul punto, appare interessante richiamare la sentenza n. 16797 del 5 luglio 2013, laddove nel “validare” il risultato degli studi di settore in sede di accertamento, la Corte di Cassazione ha posto l’accento sulla necessità di avere una contabilità non facilmente attaccabile. Nell’ipotesi analizzata i punti di “debolezza” riscontrati nella contabilità del soggetto sottoposto a controllo sono stati “classici”, vale a dire la non veridicità dei finanziamenti dei soci, ritenuti “spropositati” rispetto ai risultati aziendali e alle occorrenze dei medesimi soci, nonché le rimanenze finali (in sostanza trattasi delle voci contabili che spesso si prestano ad interventi strumentali per “adeguare” i risultati reali ad altri a prima vista “accettabili”).
Le motivazioni difensive, dunque, devono essere sostanziali e fondarsi sulla dimostrazione del perché le risultanze dello studio di settore non possono trovare applicazione nel caso specifico. Serve pertanto illustrare le modalità con cui l’attività è stata svolta, la sussistenza di condizioni di marginalità, la presenza di malattie che hanno impedito la frequenza assidua del luogo di lavoro, gli impedimenti oggettivi che hanno condizionato i risultati, come appunto il caso dinanzi richiamato dello svolgimento di un lavoro dipendente parallelo ovvero, circostanza purtroppo al momento particolarmente diffusa, la crisi del settore di appartenenza. Ed in tale direzione sono ormai diverse le prese di posizione della giurisprudenza della Suprema Corte, a partire dalla sentenza n. 27166 del 4 dicembre 2013, dove è affermato come sia provato l’onere difensivo del contribuente che giustifica il mancato adeguamento agli studi di settore documentando la grave crisi finanziaria che ha colpito la sua attività, con tanto di esecuzione forzata delle unità immobiliari in cui la stessa era svolta, a seguito del mancato pagamento delle rate di mutuo.
In definitiva, è lecito affermare che in presenza di elementi concreti la giurisprudenza ha da sempre dimostrato elevata sensibilità. Questa è la direzione migliore per affrontare la tematica degli studi di settore, puntando soprattutto già in sede di contraddittorio obbligatorio all’inversione dell’onere probatorio e al relativo “appesantimento”, costringendo l’Amministrazione finanziaria ad un duplice importante sforzo: superare le tesi difensive e dimostrare l’applicazione dello standard al caso specifico. Esercizio certamente non semplice da realizzare se si hanno elementi sostanziali per dimostrare l’inapplicabilità dello standard al caso concreto del contribuente sottoposto a controllo.
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