Normalmente, infatti, il recesso di un socio è la conseguenza di un comportamento della maggioranza del capitale sociale, che determina una sostanziale modifica della posizione del socio di minoranza. In tal senso, l’articolo 2473, comma 1, cod. civ., consente al socio di esercitare il diritto di recesso in presenza di delibere (od operazioni) che comportino una sostanziale modifica dell’oggetto sociale, il cambiamento del tipo sociale (trasformazione), ovvero in presenza di operazioni di fusione e scissione e laddove venga trasferita la sede all’estero. Risulta del tutto evidente che, in tali casi, la posizione del socio subisce importanti modifiche a seguito della decisione dell’assemblea presa a maggioranza, con la conseguenza che, il socio stesso che non acconsente alla delibera può scegliere se “subire” la scelta della maggioranza o esercitare il diritto di recesso.
Vi sono, invece, altre situazioni in cui il diritto di recesso è esercitabile per il solo fatto che lo statuto sociale prevede delle forti limitazioni alla libertà del socio. La prima ipotesi è contenuta nell’articolo 2473, comma 2, cod. civ., secondo cui, nel caso di società contratta a tempo indeterminato, il socio può esercitare il diritto di recesso in qualsiasi momento, previo preavviso di almeno 180 giorni (termine elevabile dallo statuto ad un massimo di un anno). La ratio di tale norma è evidente, poiché se da un lato è legittima la clausola secondo cui la società non ha un termine di durata, dall’altro non è legittimo costringere il socio a stipulare un contratto a tempo indeterminato, ragion per cui in qualsiasi momento lo stesso può manifestare la volontà di sciogliere il rapporto sociale.
La seconda ipotesi è, invece, contenuta nell’articolo 2469, comma 2, cod. civ., secondo cui, qualora lo statuto contenga una clausola di intrasferibilità assoluta delle partecipazioni sociali, ovvero una clausola che subordini il trasferimento al mero gradimento di un organo sociale, di soci o di terzi, il socio può esercitare il diritto di recesso. Anche per tale ipotesi, le motivazioni sottostanti sono evidenti, poiché se da un lato la società può cercare di “blindare” la composizione della compagine sociale, dall’altro il socio non può essere costretto a rimanere nell’ambito societario, ragion per cui ha un diritto di “exit” che, anche in questo caso, può essere esercitato ad nutum in qualsiasi momento della vita sociale. Tuttavia, mentre nell’ipotesi di presenza di una clausola che limiti in modo assoluto la trasferibilità della partecipazione (il cui inserimento, salvo casi estremi, non è consigliabile) il diritto di recesso è esercitabile in qualsiasi momento, nel caso in cui lo statuto contenga una clausola di mero gradimento l’esercizio del diritto è azionabile solamente dopo aver constatato il mancato gradimento da parte del soggetto preposto (tipicamente l’organo amministrativo, un terzo, etc.). In merito, si è espresso anche il Consiglio Notarile di Milano che, con la massima n. 151, ha affermato che “è quindi certamente legittima una clausola statutaria che (….) riconoscendo espressamente il diritto di recesso ai soci solo nel caso in cui il gradimento “mero” sia negato, eventualmente richiedendo adeguata dimostrazione della disponibilità del terzo ad acquistare la partecipazione, poiché solo in tale circostanza si verifica il presupposto che la regola dettata dal legislatore intende sanare, consistente nel rischio di “prigionia” del socio”.