Diritto di recesso negli studi professionali: normativa e giurisprudenza in evoluzione
di Rosario ZacconeIn un precedente articolo, si è discusso ampiamente dell’evoluzione del panorama professionale italiano, caratterizzato dalla crescente diffusione degli Studi organizzati in forma associativa o societaria, come gli Studi Associati o le S.T.P. (per ulteriori dettagli, vedi https://mpopartners.com/articoli/stp-operazioni-aggregazioni-studi/?_), analizzando in particolar modo le molte occasioni delle quali dispone un professionista nel caso in cui decidesse di lasciare lo Studio (https://mpopartners.com/articoli/recesso-studio-associato-stp-previsione-durata-superiore-durata-vita-soci/?_). Le motivazioni che possono portare a tale decisione sono diverse, ad esempio: per motivi personali, come dissidi insanabili con gli altri soci o il desiderio di avviare un’attività indipendente, o per ragioni obbligate, come il raggiungimento dell’età pensionabile. La soluzione preferibile in questi casi è la compravendita della quota del socio uscente da parte degli altri soci. Tuttavia, in mancanza di accordo, il socio può esercitare il proprio diritto di recesso, con conseguente liquidazione della propria quota (per i criteri di liquidazione della quota, vedi l’articolo https://mpopartners.com/articoli/criteri-valutazione-quota-studio-associato-recesso/?_).
La normativa che regola il recesso varia a seconda del tipo di società: società di persone (art. 2285 c.c.), s.r.l. (art. 2473 c.c.) o s.p.a. (art. 2437 c.c.). La prima norma si applica anche agli Studi Associati, generalmente equiparati alle società semplici. Per le S.T.P. e le cosiddette società di servizi (come discusso nell’articolo https://mpopartners.com/aspetti-legali-operazioni-ma/attivita-professionale-affiancata-societa-servizi-affitto-azienda/?_), è fondamentale prestare attenzione alla forma societaria scelta durante la costituzione. Invece, l’articolo 2437 cod. civ. stabilisce che nelle società con durata indeterminata è garantita la libera recedibilità dei soci, riflettendo l’opinione che i vincoli di durata prolungata non siano favorevoli nel nostro sistema giuridico.
Nel presente articolo verrà analizzata la sentenza n. 6280/2022, con cui la Suprema Corte di Cassazione è tornata ad affrontare il tema del recesso del socio dalla società di capitali in caso di modifica della durata della società. In particolare, la Corte ha esaminato la riduzione della durata della società dal 2100 al 2040, ritenendo che al socio dissenziente non spetti il diritto di exit in relazione a tale delibera. Questa riduzione, pur rendendo il termine di durata più ragionevole rispetto alla vita umana, non rientra propriamente nelle previsioni dell’articolo 2437, comma 3, del codice civile.
La sentenza in discussione rappresenta un ulteriore consolidamento dell’orientamento giurisprudenziale recente riguardo al diritto di recesso dei soci nelle società di capitali, mostrando però incertezze riguardo alla portata del recesso ad nutum in relazione alla durata della società. Questo indirizzo giurisprudenziale interpreta in modo restrittivo la normativa, per proteggere gli interessi dei creditori e la stabilità del patrimonio sociale. La pronuncia della Suprema Corte di Cassazione si inserisce nel recente orientamento giurisprudenziale che adotta un’interpretazione restrittiva delle ipotesi di recesso accordate al socio di società di capitali dal legislatore. Tale orientamento esclude l’equiparazione tra una società con durata eccedente le aspettative di vita del socio e una con durata indeterminata, limitando le possibilità di recesso ad nutum a quelle tassativamente previste dalla legge e dallo statuto.
In seguito alla delibera con cui l’assemblea di una Spa aveva ridotto la durata della società dal 31 dicembre 2100 al 31 dicembre 2040, un socio, non partecipante all’assemblea e che dunque non aveva espresso il proprio consenso alla delibera, esercitava il diritto di recesso ai sensi dell’articolo 2437, comma 1, lettera e), cod. civ., che riguarda l’eliminazione di una causa di recesso. Il socio sosteneva che la riduzione della durata comprometteva la sua facoltà di recedere ad nutum secondo l’articolo 2437, comma 3, cod. civ., equiparando la società con scadenza al 2100 a una a tempo indeterminato.
Ritenendo illegittimo il recesso, la società portava la controversia in arbitrato. Il lodo arbitrale veniva poi impugnato dal socio dinanzi alla Corte d’Appello di Palermo, che rigettava le domande del socio. La Corte d’Appello affermava che, sebbene l’assimilazione tra una società a tempo indeterminato e una con durata superiore alla vita umana fosse fondata, la disciplina del recesso nelle Spa, a differenza delle Srl, deve essere interpretata in senso restrittivo.
Il socio recedente ricorreva in Cassazione, che confermava le conclusioni della Corte d’Appello di Palermo. La Suprema Corte ripercorreva il quadro normativo del recesso dalle società di capitali, distinguendo tra società quotate, soggette a un rigido sistema di exit, e non quotate, dove il recesso è residuale rispetto ad altre forme di disinvestimento.