Disciplina del cd. “carried interest” in ipotesi di detenzione indiretta della partecipazione
di Fabrizio RicciGianluca CristoforiCome noto, nel settore del private equity (ma non solo) vengono talvolta offerti a taluni amministratori esecutivi e/o al top management strumenti finanziari (spesso rappresentati da una speciale categoria di azioni) aventi diritti patrimoniali rafforzati (il cd. “carried interest”). Ciò allo scopo di accomunare, nella condivisione del rischio e delle opportunità di profitto, la posizione dei manager a quella degli altri soci.
Per diverso tempo gli operatori hanno utilizzato tali strumenti di incentivazione in assenza di precise indicazioni normative e di prassi riferibili alla qualificazione fiscale dei proventi derivanti da tali strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati.
In particolare, la principale questione aperta riguardava la natura “finanziaria” o di reddito da lavoro dipendente dei predetti proventi.
Il duplice ruolo rivestito dal manager (titolare di reddito da lavoro dipendente, assimilato o autonomo), che cumulasse anche la posizione di azionista (o quotista) della società, ha infatti fatto sorgere più di un’incertezza, legata, in particolare, al ben noto “principio di onnicomprensività della retribuzione” contenuto nell’articolo 51, comma 1, Tuir, a norma del quale “Il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”.
Come rilevato nella relazione illustrativa del D.L. 50/2017, che ha introdotto una speciale normativa, tutt’ora in vigore, prima dell’entrata in vigore del provvedimento, “all’assenza di una chiara qualificazione normativa sulla natura giuridico-tributaria di reddito di “capitale” ai fini delle imposte dirette dei proventi derivanti dai diritti patrimoniali “rafforzati” percepiti dai manager e dai dipendenti titolari di quote o azioni della società, si è fatto fronte con il chiarimento pubblicato in via di prassi dall’Agenzia delle Entrate (Risoluzione n. 103/E/2012), dove si è affermato che i proventi de quo devono configurarsi quali redditi di “capitale” … ma solo allorché la partecipazione agli utili mediante tali investimenti non sia subordinata all’esistenza del rapporto di lavoro con l’investitore, dal momento che è ben ipotizzabile che in tal caso il beneficiario potrebbe continuare a mantenere il possesso della partecipazione, anche in caso di “cessazione” del rapporto di lavoro”.
Con l’apprezzabile intento di conferire maggiore certezza agli operatori, stimolando così anche gli investimenti dei fondi d’investimento in Italia, il legislatore è intervenuto, stabilendo le condizioni al ricorrere delle quali opera una presunzione legale di qualificazione, come redditi di capitale o diversi di natura finanziaria, dei proventi derivanti dalla partecipazione a società, enti o organismi di investimento collettivo del risparmio (OICR), percepiti da dipendenti e amministratori di tali società, enti od OICR (ovvero di soggetti a essi legati da un rapporto diretto o indiretto di controllo o gestione), se relativi ad azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati.
Una norma, quindi, idonea a superare – alle condizioni di legge – la presunzione recata dal succitato principio di onnicomprensività della retribuzione.
In particolare, l’articolo 60 D.L. 50/2017 prevede che tali proventi “si considerano in ogni caso redditi di capitale o redditi diversi se:
a) l’impegno di investimento complessivo di tutti i dipendenti e gli amministratori di cui al presente comma, comporta un esborso effettivo pari ad almeno l’1 per cento dell’investimento complessivo effettuato dall’organismo di investimento collettivo del risparmio o del patrimonio netto nel caso di società o enti;
b) i proventi delle azioni, quote o strumenti finanziari aventi i suindicati diritti patrimoniali rafforzati maturano solo dopo che tutti i soci o partecipanti all’organismo di investimento collettivo del risparmio abbiano percepito un ammontare pari al capitale investito e ad un rendimento minimo previsto nello statuto o nel regolamento ovvero, nel caso di cambio di controllo, alla condizione che gli altri soci o partecipanti dell’investimento abbiano realizzato con la cessione un prezzo di vendita almeno pari al capitale investito e al predetto rendimento minimo;
c) le azioni, le quote o gli strumenti finanziari aventi i suindicati diritti patrimoniali rafforzati sono detenuti dai dipendenti e amministratori di cui al presente comma o, in caso di decesso, dai loro eredi, per un periodo non inferiore a 5 anni o, se precedente al decorso di tale periodo quinquennale, fino alla data di cambio di controllo o di sostituzione del soggetto incaricato della gestione”.
Come precisato nella circolare AdE 25/E/2017, all’assenza di una delle condizioni richieste non consegue, tuttavia, necessariamente, l’automatica riqualificazione del provento come reddito da lavoro dipendente o assimilato, bensì “solo” l’inapplicabilità della presunzione legale di qualificazione, quali redditi di capitale o diversi di natura finanziaria, dei redditi ritratti dagli strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati, comportando un’analisi volta a verificare – caso per caso – la natura del provento, ferma restando “[…] in ogni caso la possibilità per il contribuente che voglia avere certezza in ordine al trattamento fiscale applicabile alla attribuzione del carried interest di rivolgere istanza di interpello all’amministrazione finanziaria”.
Sia nella citata circolare, sia nelle risposte alle istanze di interpello che si sono susseguite, sono state fornite diverse indicazioni sulle circostanze al ricorrere delle quali – in caso di inapplicabilità della presunzione – il reddito si qualificherebbe comunque come reddito di natura “finanziaria”, oppure come reddito dal lavoro dipendente o assimilato. Tuttavia, nonostante gli sforzi compiuti sia dal legislatore, sia dall’Amministrazione finanziaria, per addivenire a una situazione di minore incertezza, permangono tutt’ora taluni aspetti che necessiterebbero di chiarimenti.
Tra questi, un necessario chiarimento di una certa rilevanza riguarda l’ipotesi in cui le partecipazioni aventi diritti patrimoniali rafforzati siano detenute dai manager solo “indirettamente”, per il tramite di un veicolo societario costituito sotto forma di società di capitali, ove non sussistessero le stringenti condizioni per l’operatività della presunzione legale (di per sé applicabile anche in caso di possesso “indiretto” come normativamente previsto).
In presenza, infatti, di una società holding intermedia costituita dai manager, ove, sulla base dei requisiti di legge e delle circostanze fattuali, si giungesse alla conclusione che i redditi ritratti dalle stesse siano da qualificare quali redditi da lavoro dipendente o assimilato (per esempio, ove vi fossero clausole che garantiscono al manager, in ogni caso, la restituzione integrale del capitale investito), non risultano chiare le modalità di imposizone.
Una prima modalità, che potrebbe risultare coerente con la qualificazione del reddito come da lavoro dipendente, potrebbe essere quella che prevedesse la tassazione direttamente in capo ai manager, attraverso l’imputazione agli stessi, “per trasparenza”, dei proventi riconosciuti alla holding da questi partecipata, ciò in sede di distribuzione dell’utile alla holding intermedia, ovvero in sede di disinvestimento da parte di questa.
Una simile ricostruzione, tuttavia, necessiterebbe di una specifica disciplina atta a regolare:
- il meccanismo di “imputazione” (in assenza del quale, tra gli altri, si porrebbe il problema del “possesso del reddito” in capo ai manager, salva la presenza di possibili fenomeni di interposizione soggettiva, anche reale, il cui accertamento rimane tuttavia una prerogativa dell’Amministrazione finanziaria);
- l’irrilevanza del provento in capo alla holding dei manager (per scongiurare una altrimenti intollerabile doppia imposizione, vietata dal sistema ai sensi dell’articolo 163 Tuir);
- la successiva irrilevanza della distribuzione del dividendo corrispondente a tale provento già “imputato” ad altro titolo al socio.
È evidente quindi come, allo stato attuale della normativa, una simile soluzione non sia percorribile, quantomeno in assenza di un’attività di accertamento (anche preventivo, in sede di risposta a un’istanza di interpello di tipo qualificatorio, presentata ai sensi dell’articolo 37 D.P.R. 600/1973) da parte dell’Amministrazione finanziaria.
La seconda alternativa potrebbe essere rappresentata, invece, dalla tassazione, in capo alla holding dei manager – quale soggetto titolare del diritto a percepire i frutti dello strumento finanziario – e successivamente, in capo al manager, in sede di distribuzione dei dividendi o di “exit” dalla holding stessa.
In tal caso, la holding percepirebbe rendimenti (più che proporzionali rispetto alla partecipazione al capitale) ai quali, ai fini del trattamento fiscale, avendo riguardo a ragioni logico-sistematiche, potrebbe non applicarsi la cd. dividend exemption di cui all’articolo 89 Tuir, nonché – soddisfatte le condizioni richieste dall’articolo 87 Tuir – la cd. participation exemption, per via del fatto che tali rendimenti non sarebbero qualificabili quali redditi “finanziari”, trattandosi di una componente integrativa della remunerazione spettante ai manager in relazione al rapporto di lavoro o al mandato. Il veicolo, pertanto, tratterebbe tali proventi come un “ordinary income”, da far concorrere integralmente alla formazione del reddito d’impresa.
Una simile impostazione consentirebbe, in definitiva, sul piano della complessiva pressione impositiva, di raggiungere un risultato analogo a quello che sarebbe conseguito in ipotesi di detenzione diretta degli strumenti finanziari da parte dei manager (per lo meno con riguardo ai redditi marginali eccedenti la soglia di euro 50.000). Come noto, infatti, l’applicazione dell’aliquota Ires del 24% e la ritenuta alla fonte del 26%, da operarsi in sede di distribuzione dell’utile netto (idealmente il 76% che residua) approssima l’aliquota Irpef più elevata (43%).
Nemmeno questa ipotesi, tuttavia, sarebbe priva di incertezze. Occorre, infatti, domandarsi, per esempio, se, in sede di determinazione del reddito della holding dei manager, i costi di gestione della stessa siano da considerarsi deducibili oppure no.
In caso positivo, si otterrebbe comunque una base imponibile inferiore rispetto a quella che si avrebbe in caso di detenzione diretta degli strumenti finanziari da parte dei manager.
In sede di determinazione del reddito da lavoro dipendente non è consentita, infatti, la deduzione di alcun componente negativo.
In sostanza, quindi, anche a sostanziale parità di imposizione “nominale”, attraverso la deduzione dei costi di gestione della società la detenzione indiretta degli strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati non condurrebbe al medesimo risultato che si sarebbe ottenuto in caso di detenzione diretta da parte dei manager.
Un ulteriore profilo di criticità che conseguirebbe alla ipotizzata modalità di tassazione consiste nella possibilità, da parte dei manager, di differire una parte del carico impositivo.
Sebbene, come detto, l’imposizione che sconta la holding dei manager, sommata alla ritenuta alla fonte subita da questi in sede di distribuzione, approssimi l’aliquota Irpef più elevata, la seconda parte del prelievo potrebbe essere teoricamente posticipata sine die.
Tale questione non è trattata nella più volte citata circolare 25/E/2017, fatta eccezione per un (invero un po’ “criptico”) passaggio nel quale si afferma che “Restano ferme inoltre le ordinarie regole di imputazione del reddito – operanti anche nei casi di partecipazione indiretta – essendo la norma destinata a disciplinare esclusivamente la qualificazione dello stesso”.
Sul tema, quindi, sarebbe necessario un organico e più preciso inquadramento della fattispecie quantomeno sul piano interpretativo (a carico dell’Agenzia delle Entrate), se non anche l’introduzione di specifica disciplina sul piano normativo.