Dispersi nelle nebbie della compensazione indebita
di Giovanni ValcarenghiLa recente rivisitazione dei reati penal tributari riferiti alle frodi da riscossione (di IVA e di ritenute), offre lo spunto per approfondire una vicenda che, a parere di chi scrive, appare tutt’altro che cristallina.
Ci si riferisce all’articolo 10-quater del decreto legislativo 74/2000 che, nella versione vigente dal 22 ottobre scorso, prevede quanto segue:
- è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro;
- è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro.
In precedenza, il reato era comunque esistente (peraltro con la medesima soglia di punibilità di 50.000 euro), ma non vi era una differenziazione nella pena prevista tra le due ipotesi.
Già da tale riscontro, si evincono due considerazioni:
- il comportamento è ritenuto particolarmente pericoloso, poiché è l’unico in relazione al quale non si è ritenuto di innalzare la soglia di punibilità;
- nella medesima fattispecie “generale”, inoltre, si è ulteriormente inteso differenziare due comportamenti (con differente grado di pericolosità): quello dell’utilizzo in compensazione (oltre soglia) di credito inesistente – più grave – rispetto a quello dell’utilizzo del credito non spettante.
Appare quanto mai opportuno, allora, avere ben chiara la distinzione tra le due casistiche; vale dire, quando un credito utilizzato in modo “non consono e oltre soglia” possa dirsi non spettante, oppure inesistente.
Al riguardo, i lavori accompagnatori del decreto 158/2015 affermano che
Per tentare di comprendere la distinzione tra le due fattispecie, possiamo citare i lavori di accompagnamento al decreto delegato che, al riguardo, rammentano che la “distinzione è contenuta all’articolo 15, comma 1, lettera o) del decreto, che modifica l’articolo 13 del D.Lgs. n. 471 del 1997, che introduce la disciplina dell’utilizzo in compensazione di un credito inesistente, definito come il “credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli automatizzati”.
La relazione illustrativa al riguardo chiarisce che devono escludersi dall’ambito applicativo della disposizione tutte quelle ipotesi in cui l’inesistenza del credito:
- emerga direttamente da detti controlli operati dall’Amministrazione;
- nonché quelle ipotesi di utilizzazione di crediti in violazione di regole di carattere procedurale non prescritte a titolo costitutivo del credito stesso.
Di diverso avviso (in relazione alla precedente versione, pare essere la Cassazione penale (sentenza 36393 del 09-09-2015), quantomeno in relazione all’utilizzo del credito (esistente) ma sopra la soglia disponibile.
Si afferma, infatti, che la nozione di credito non spettante non può essere ricondotta al concetto di mera non spettanza soggettiva, ovvero alla pendenza di una condizione al cui avveramento sia subordinata l’esistenza del credito. Quindi, “deve ritenersi pertanto che sia credito tributario non spettante, quel credito che, come nel caso che ci occupa, pur certo nella sua esistenza ed ammontare sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile (ovvero non più utilizzabile) in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l’Erario”.
Non compare, dunque, alcun riferimento all’elemento soggettivo (dolo generico) che, invece, dovrebbe rivestire una propria rilevanza; di tale aspetto pare invece essersi preoccupata la stessa Cassazione (sentenza 48211 del 4-12-2015) che, addirittura, riscontra come “vi sia stato l’intento del legislatore di mettere ordine in una materia, che prestava il fianco a più di una perplessità”.
Riscontrano i Giudici, infatti, che “l’espressione “compensazione in eccedenza” cui fa riferimento l’articolo 34 della L. 388/2000 sembra essere concettualmente diversa dall’espressione “credito non spettante”, in quanto la non spettanza penalmente rilevante – a stretto rigore – parrebbe riferirsi al credito in quanto tale e non alla compensazione che … rappresenta una operazione tributaria riferita pur sempre a crediti, esistenti e spettanti, seppure non in vista di una compensazione. Il concetto di non spettanza include …tutto ciò che non spetta, ovviamente dal, punto di vista tributario. Bisogna tuttavia dar atto che la giurisprudenza tributaria formatasi con riferimento alla fattispecie delle compensazioni in eccedenza non è uniformemente orientata nel senso della sanzionabililtà di tale condotta: CTR Lazio n. 183 del 24-11-2009 e CTP Modena n. 49 del 04-06-2008.
Si noti che il fatto che sia stata richiamata la giurisprudenza di merito in materia tributaria potrebbe oggi assumere un significato rilevante per la presunta “assimilazione” delle definizioni descritta dalla relazione illustrativa del decreto 158/2015.
Censurando la sentenza, poi, si riscontra come il giudice di merito abbia circoscritto la propria indagine alla mancata vigilanza da parte dell’imputato dell’operato del commercialista (che a suo dire sarebbe incorso in un errore contabile) e la insufficiente attenzione prestata all’anomalo accrescimento del volume di affari” (?).
Si prosegue allora affermando che “Ritiene il Collegio che la prospettazione della buona fede da parte della difesa avrebbe invece dovuto indurre il Tribunale ad approfondire il tema tenendo conto non solo delle oggettive difficoltà di interpretazione della norma a, causa della generica formula adoperata dal legislatore, ma anche degli orientamenti emersi sullo specifico tema nella giurisprudenza tributaria formatasi sulla materia”.
In conclusione, a prescindere dalla vicenda dell’aspetto soggettivo, pare assolutamente utile ed urgente che si chiarisca, almeno in via interpretativa, se la compensazione oltre soglia di un credito esistente possa, o meno, configurare fattispecie penalmente rilevante. Le nebbie, almeno in questo caso, si possono e si devono dissolvere.