Dovuta dal professionista la penale per aver sviato i clienti
di Lucia Recchioni - Comitato Scientifico Master Breve 365Se il contratto tra lo studio di commercialisti associati ed un singolo professionista prevede l’applicazione di una penale in caso di sviamento della clientela, la stessa risulta essere dovuta, non assumendo rilievo la libera determinazione dei terzi nella scelta del proprio professionista.
È questo il principio richiamato nell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 9966, pubblicata ieri, 28 marzo.
Un professionista stipulava un contratto di prestazione d’opera con uno studio di commercialisti associati nell’ambito del quale era prevista una clausola che prevedeva, in caso di dirottamento della clientela dello studio associato, in vigenza del contratto e nei tre anni successivi la risoluzione, l’obbligo di corresponsione, in capo al professionista, di una penale pari al corrispettivo di un anno dovuto dai clienti “dirottati”.
Il principale valore economico dello studio associato era infatti rappresentato dal valore economico costituito dalla sua clientela, ragion per cui si rendevano necessarie clausole finalizzate a vietare l’esercizio di attività concorrenziali.
D’altra parte, i clienti erano tutti dello studio associato e il professionista era entrato in contatto con loro solo in occasione dell’esecuzione del contratto di collaborazione professionale; lo stesso contratto prevedeva inoltre un premio sul compenso nel caso di nuovi clienti riconducibili al professionista.
Il professionista si difendeva in giudizio, rilevando non solo la libertà di determinazione della clientela (che poteva quindi scegliere liberamente il professionista cui affidarsi) ma anche la circostanza che i compensi della sua collaborazione non erano stati corrisposti.
Di diverso avviso si sono però mostrati i Giudici di merito, i quali hanno ritenuto innanzitutto rilevante la circostanza che il professionista non avesse allegato alcun particolare elemento di professionalità circa le problematiche dei clienti che lo avevano seguito e che solo lui avrebbe potuto offrire.
Tutte le disdette dei clienti, inoltre, erano state redatte secondo lo stesso identico schema e con lo stesso errore grammaticale, e tutte le variazioni del depositario delle scritture contabili erano state trasmesse telematicamente dallo stesso intermediario con cui il professionista aveva iniziato la nuova collaborazione.
Considerato, quindi, che i clienti sottratti allo studio associato erano circa 40, la clausola penale contrattualmente prevista, dovuta dal professionista, veniva determinata in misura pari a 131.701 euro.
Il professionista proponeva pertanto ricorso per cassazione, risultando tuttavia ugualmente soccombente.
La Corte di Cassazione ha a tal proposito ricordato che l’elemento letterale, pur assumendo funzione fondamentale nella ricerca della effettiva volontà delle parti, deve essere valutato alla luce di ulteriori criteri ermeneutici, tra i quali quelli dell’interpretazione funzionale di cui all’articolo 1369 cod. civ. e dell’interpretazione secondo buona fede ai sensi dell’articolo 1366 cod. civ., tenuto conto dello scopo pratico perseguito delle parti con la stipula del contratto, e, quindi, della “causa concreta”.
Correttamente, quindi, la Corte d’Appello ha dato rilievo alla circostanza che l’intero rapporto di collaborazione professionale tra le parti si era concretizzato “per la costante tensione volta a tutelare il committente nell’aspetto più sensibile del proprio valore economico costituito dalla clientela che ad esso si affidava per l’erogazione dei servizi fiscali e contabili prestati”.
Non accoglibile è stata inoltre la tesi difensiva circa il richiamo alla libertà dell’utenza di scegliere il professionista, in quando la clausola era stata concordata tra le parti e non incideva sulla libertà di determinazione della clientela.