Ciò che rileva, quindi, è che anche in presenza di un prezzo certamente simbolico, come nel caso di specie, esiste il perseguimento di un interesse giuridico del cedente, come è ad esempio la liberazione dai debiti, o come potrebbe essere il fatto di trovarsi sollevato da rapporti di lavoro o contratti onerosi facenti parte della società (o dell’azienda) trasferita al compratore.
Occorre perciò distinguersi fra la “gratuità” dell’atto, che certamente ricorre quando il prezzo di cessione è, come nel caso trattato dalla sentenza in commento, prossimo allo zero, dalla “liberalità” che attiene allo spirito per il quale l’atto di trasferimento viene compiuto.
Un negozio può essere perciò a titolo gratuito, come quando il prezzo è di per se stesso insignificante, ma pur tuttavia perseguire un interesse economico comune delle parti, e senza perciò cadere nell’espressione di una “donazione”; infatti, affinché ricorra la donazione, in luogo di atto di cessione gratuito, occorre che vi siano:
– un elemento soggettivo che è lo spirito di liberalità, ovvero la consapevolezza del dante causa di produrre un vantaggio patrimoniale all’avente causa senza esservi obbligato;
– un elemento oggettivo che consiste nel depauperamento del patrimonio del dante causa.
Quando invece il trasferimento, seppure in assenza di corrispettivo reale sì da condurlo verso la sua gratuità, si collega ad un interesse comune di risanamento dell’impresa, e di liberazione del cedente da pesi e gravami (nel caso della sentenza del Tribunale di Roma si trattava di una società in liquidazione con patrimonio negativo), non si intravvedono affatto i tratti caratteristici della donazione, così che l’atto di cessione rimane legittimo ed efficace.
La sentenza citata è altresì interessante in quanto fra i motivi eccepiti dagli attori per domandare la nullità del contratto di trasferimento delle partecipazioni vi era anche il fatto che il prezzo sarebbe stato in parte determinabile, per via della previsione di una tipica clausola di earn-out, in forza della quale dall’esito del realizzo tratto dal cessionario dalla liquidazione del patrimonio della società ceduta si sarebbe determinata una integrazione del prezzo di cessione.
L’eccezione degli attori era riferita al fatto che, poiché tutta la gestione ed anche la predisposizione del bilancio o rendiconto da cui si sarebbero tratte le grandezze utili a calcolare la parte determinabile del prezzo erano sotto l’esclusivo controllo e potere della parte venditrice, questa clausola si sarebbe presentata come viziata da una condizione meramente potestativa in quanto soggetta al semplice arbitrio di una delle parti.
Di diverso avviso il Tribunale romano il quale fissa alcuni principi interessanti.
Viene precisato che sul piano della validità di una simile clausola, non è determinante il fatto che le persone del cessionario e dell’amministratore della società ceduta vengano eventualmente a coincidere, posto che l’amministrazione di società è comunque disciplinata da regole che devono tutelare la corretta gestione, regole che hanno natura imperativa, oltre a poter essere integrate con la presenza di patti fra le parti tali da disporre cautele e tutele per il cedente.
Pertanto, quando la clausola fissa, anche per effetto del supporto dato dalla disciplina di legge (nel caso di specie, si trattava delle regole della liquidazione di società), in modo chiaro i criteri di determinazione dell’integrazione del prezzo di cessione, non vi sono ragioni per dubitare della sua validità.