Quando i
professionisti italiani affermano con forza di
non essere degli
imprenditori, hanno assolutamente ragione. Ma non per i motivi che loro credono.
Facciamo un esempio. Si è calcolato che un percorso di adozione di lean organisation all’interno dello studio può portare a riduzioni dei costi del 25-30%.
La presenza di un sistema di
rilevazione dei tempi di lavoro può portare a rifatturazioni del 10-15% di pratiche eseguite di cui nessuno in studio conosceva l’esistenza.
Un corretto utilizzo della
fatturazione elettronica fa risparmiare allo studio da 7 a 15 euro per documento emesso. L’uso degli strumenti di riconoscimento automatico delle fatture e la dematerializzazione dei documenti può portare a un ulteriore risparmio del 20-30% sui costi.
Combinando tutti questi strumenti insieme possiamo rivoluzionare il conto economico dello studio. Ma occorre
investire tempo e risorse, per lo più immateriali. E così pochissimi lo fanno.
Uno dei tratti che distingue in modo nettissimo il professionista dall’imprenditore è la sua endemica
incapacità di investire. Tra l’uovo oggi e la gallina domani, il professionista medio italiano sceglie l’uovo.
Il nostro
professional vuole sempre andare a nozze con i fichi secchi e quando si tratta di scucire qualche euro per le innovazioni, allora sì che fa orecchie da mercante.
Ci sono molte ragioni che influenzano il comportamento, del tutto irrazionale, del lavoratore autonomo intellettuale nei confronti dell’investimento.
Uno dei motivi per cui questo fenomeno si verifica è banale. Deriva dall’adozione nella contabilità degli studi professionali italiani del
criterio di cassa. Tale impostazione fa sì che il professionista tenda a percepire ogni forma di investimento non come un esborso effettuato in funzione di un molto maggiore ritorno negli anni a venire ma come un’uscita a sé stante, come una perdita permanente nel proprio patrimonio.
Non compro i PC nuovi per lo studio altrimenti non riesco ad andare una settimana in montagna, senza pensare che se riuscissi a far fare i lavori al mio personale risparmiando un quarto del tempo, potrei permettermi di andare in montagna ogni anno e per due settimane.
Nella rosa degli asset acquistabili,
l’investimento negli intangibili è il più difficile da digerire.
Se stiamo poco bene andiamo dal medico. Se abbiamo un problema andiamo dall’avvocato. Ma se c’è da organizzare lo studio guai a chiedere aiuto a chicchessia. Per motivi di
orgoglio, prevale il bricolage organizzativo. Il professionista infatti non assegna alcun valore al proprio tempo libero, in quanto non ne percepisce il costo opportunità e quindi assorbe su di sé ogni genere di attività pur di non sborsare del denaro.
In terzo luogo i professionisti sono fondamentalmente
avversi a ogni forma di
rischio e quindi anche i minimi investimenti richiesti dalla maggior parte delle attività professionali vengono vissuti come un trauma.
Fa sorridere il fatto che spesso andiamo dagli imprenditori e gli suggeriamo di riposizionare l’azienda, di cercare nuovi clienti e nuovi mercati e non abbiamo alcuna remora a consigliargli di sottoscrivere mutui, leasing e castelletti di ogni sorta, e a condirli con garanzie personali di ogni genere, mentre noi abbiamo paura di mettere sul tavolo poche migliaia di euro, che peraltro avremmo già in cascina.
Anche la
mancanza totale di pianificazione tipica dei nostri studi non aiuta. Se non pianifichi i tuoi obiettivi non sei in grado di capire se ti servono degli investimenti e verificare se puoi ammortizzare i tuoi investimenti con i fatturati ragionevolmente ritraibili.
Anche quando il professionista decide di varcare il Rubicone e di investire, il processo non prosegue in modo proprio del tutto lineare. La scelta degli investimenti da fare e da non fare non è accompagnata da grandi elucubrazioni. Le scelte di investimento dei professionisti non sono precedute da software selection o dalla stima del ritorno sull’investimento, ma avvengono per lo più sulla base dell’
impulso. Acquistiamo il nuovo palmare perché ce l’ha il nostro amico. Non possiamo invece comprare il nuovo software, che ci servirebbe come l’aria che respiriamo, perché la nostra capo contabile si metterebbe di traverso. E poi il venditore ci sta sempre addosso, è antipatico e non gli abbiamo mai perdonato il fatto che vent’anni fa ci ha rifilato una “sola” gigantesca… Peccato che oggi rappresenti una azienda completamente diversa, con il migliore prodotto sul mercato.
Anche quando riusciamo a farci violenza e superare il trauma da braccino corto e mettiamo finalmente mano al portafogli,
spesso non sfruttiamo appieno gli investimenti fatti. Nei nostri studi abbiamo risorse largamente sottoutilizzate. Sono, ad esempio, i PC per i quali non si è speso un minuto di addestramento e che sono usati come grandi macchine da scrivere o calcolatrici senza il rotolo. In altri casi soltanto poche persone beneficiano delle innovazioni perché l’addestramento non è stato diffuso o perché i titolari di studio non hanno saputo imporre l’uso dei nuovi strumenti con adeguata disciplina.
Il colpo finale al sottoinvestimento degli studi lo dà la assoluta mancanza di strumenti finanziari. Se le banche oggi guardano con sospetto ogni forma di investimento da parte delle aziende, figuriamoci come possono valutare il merito di credito per gli studi professionali, che hanno attivi patrimoniali modestissimi e ricavi calcolati per cassa e quindi sostanzialmente inattendibili. E se l’investimento richiesto è in intangibili, come addestramento e formazione, allora nessuno è disposto a prestarti un nichelino. Anche di fronte al migliore dei business plan.
Anche le forme agevolative di matrice europea sono ancora, salvo rare eccezioni, patrimonio esclusivo delle aziende e non degli studi. Solo da qualche tempo è stata conquistata una completa equiparazione a livello europeo ma la legislazione nazionale e regionale di applicazione si stanno adeguando con grande rilento. Anche nelle regioni come il Friuli Venezia Giulia che hanno una legislazione ad hoc agevolativa per le professioni pienamente operativa, il ricorso allo strumento da parte dei professionisti è stato modesto, anche per la scarsa divulgazione che è stata fatta degli strumenti esistenti da parte del mondo ordinistico, indignato per il parallelo riconoscimento che è stato concesso alle professioni non regolamentate.
Gli investimenti minimi indispensabili finora richiesti ai professionisti non sono stati peraltro in genere eccessivamente onerosi.
Solo nelle professioni tecniche e in alcune specializzazioni mediche è indispensabile un elevato investimento in apparecchiature. Pensiamo ad un sistema CAD per uno studio di ingegneria, alla macchina per fare la TAC di un radiologo o al riunito di un odontoiatra. Per quasi tutte le professioni, invece, l’
investimento più cospicuo è in tecnologia per il trattamento delle informazioni e in acquisizione di nuove informazioni attraverso la formazione e l’addestramento.
Che poi aiuti avere uno studio in una lussuosa via del centro e che convenga a volte comprarlo a mutuo anziché prenderlo in locazione è un altro paio di maniche.
Anche la crisi, peraltro, ha fatto la sua parte. Nelle ampia sforbiciate ai costi di studio ad avere la peggio sono stati, guarda caso, proprio gli investimenti. Non quelli immobiliari, non diversamente esitabili neanche volendo per assenza di potenziali acquirenti, ma proprio quelli intangibili.
Lavorare per clienti pessimi, con rischio di insoluti e con bassissimi margini non aiuta certo a investire, e quindi solo i professionisti che con coraggio hanno fatto selezione di clientela attraverso i prezzi riescono oggi ad investire più degli altri.
È importante quindi imparare a
pensare strategicamente e investire come degli imprenditori, senza avere paura dei rischi, e stimando accuratamente i ritorni. Rimanendo però assolutamente consapevoli che la professione che stiamo svolgendo è e rimane qualcosa di profondamente diverso dalla fornitura di un bene o di un servizio.