Ecco il punto sui depositi Iva anche alla luce della posizione europea
di Maria Paola CattaniLa disciplina italiana dei depositi Iva è regolata dall’articolo 50-bis, del D.L. n. 331/1993, che rispecchia quanto previsto dagli artt. 154 e segg. della direttiva 2006/112/CE, al fine di rendere omogeneo il trattamento dei beni comunitari con quello riservato ai beni provenienti da Paesi terzi, che possono essere introdotti in depositi doganali senza scontare il pagamento dell’imposta fino all’importazione. La Circolare n. 12/E dell’Agenzia, pubblicata ieri, dopo aver effettuato una panoramica riassuntiva della disciplina, riepiloga le principali questioni interpretative relative ai depositi Iva, anche alla luce di quanto emerso in sede di interpello ed in base alla posizione della Corte di Giustizia Ue sul deposito Iva “virtuale”, espressa dalla sentenza del 17.07.2014, causa C-272/13.
In estrema sintesi, giova ricordare che i depositi Iva sono luoghi fisici situati in Italia, all’interno dei quali la merce viene introdotta, staziona, e poi viene estratta, che assolvono alla funzione fiscale di consentire anche all’acquirente finale di beni comunitari di assolvere l’Iva, in maniera differita, al momento dell’estrazione dei beni, mediante reverse charge. Previsione analoga è prevista parallelamente per le prestazioni di servizi relative a tali beni, anche se non effettuate materialmente nel deposito (art. 50-bis, comma 4, lett. h)).
I commi 1, 2 e 2-bis dell’articolo citato esaminano quali beni possono essere introdotti e custoditi nei depositi Iva e quali sono i soggetti cui è consentito l’uso e la gestione del deposito. Difatti, solo alcune tipologie di beni rientrano nelle previsioni agevolative (ne sono esclusi, ad esempio, i beni presenti in Italia in ammissione temporanea o in temporanea custodia prima dell’attribuzione della destinazione doganale, o quelli importati a scarico di un regime di perfezionamento attivo con la modalità dell’esportazione anticipata), così come l’estrazione dei beni non è consentita ai privati consumatori o agli operatori che svolgono esclusivamente attività di vendita al minuto.
I soggetti abilitati alla gestione dei depositi sono differenti a seconda che gestiscano depositi per i quali non è prevista autorizzazione, per situazioni già valutate positivamente dall’Amministrazione doganale, o depositi per i quali è invece richiesta un’autorizzazione alla custodia di beni in conto proprio, alla custodia di beni in conto di terzi o in “consignment stock”: tali tipologie di depositi sono affidate a operatori “che riscuotono la fiducia dell’Amministrazione finanziaria” e che rispondono ai requisiti dettati dall’art. 2, comma 1, del D.L. n. 419/1997. L’Agenzia precisa che, al fine del rilascio dell’autorizzazione, in virtù delle modifiche normative del 2012, tali requisiti possono essere dichiarati mediante autocertificazioni (artt. 46 e 47 del D.P.R. n. 445/2000).
Sono quindi esaminate le operazioni agevolate, le quali sono subordinate tutte alla condizione che i beni siano materialmente introdotti nel deposito (salvo alcune specifiche eccezioni relative ai beni in lavorazione) e risultano suddivise in base alla circostanza che le operazioni stesse siano relative a beni che:
- debbano essere contestualmente introdotti fisicamente nei depositi;
- si trovino già nei depositi.
Rientrano nella prima tipologia le operazioni comprese tra le lettere a) e d) del comma 4 dell’articolo in esame e, precisamente:
- gli acquisti intracomunitari di beni eseguiti mediante introduzione nel deposito Iva;
- l’immissione in libera pratica di beni destinati ad essere introdotti nel deposito Iva;
- le cessioni nei confronti di operatori comunitari di beni mediante introduzione nel deposito Iva;
- le cessioni dei beni di cui alla Tab. A-bis (quelli normalmente trattati in borse merci, senza movimentazione fisica) destinati ad essere introdotti nel deposito Iva.
Le operazioni eseguite su beni che già si trovano nei depositi, invece, possono essere:
- cessioni degli stessi;
- prestazioni di servizi rese su beni custoditi;
- il trasferimento dei beni in altro deposito.
Quando infine il bene viene estratto dal deposito, ad opera solo di specifici soggetti passivi iva, si realizzeranno, alternativamente, operazioni non imponibili (se cessioni intracomunitarie ex art. art. 41 del D.L. n. 331/1993, oppure cessioni all’esportazione ex art. 8, comma 1, lett. a) o b) del D.P.R. 633/1972,) o imponibili, secondo il citato meccanismo previsto dall’art. 17, comma 2, D.P.R. n. 633/1972, la cui base imponibile sarà il corrispettivo (o, in mancanza, il valore dell’operazione) al netto di iva della transazione (in caso di “transazioni a catena”, l’ultima della serie). Inoltre, nella maggior parte dei casi, all’atto dell’estrazione, dovrà tenersi conto delle spese di custodia addebitate dal depositario.
La rilevanza fiscale della introduzione fisica nel deposito delle merci oggetto di scambio è stata esaminata specificamente dalla sentenza del 17 luglio 2014, causa C-272/13 della Corte di Giustizia europea, che ha analizzato le ipotesi di merci introdotte nel deposito non fisicamente, ma soltanto “virtualmente”.
Il principio espresso dalla Corte, e fatto proprio dall’Agenzia, è quello secondo il quale “l’articolo 16, paragrafo 1, della sesta direttiva (artt. 154 e 157 della direttiva 112/2006), che consente di non applicare l’imposta all’importazione per i beni destinati ad un deposito Iva costituisce una disposizione derogatoria che come tale deve essere interpretato restrittivamente” e che, in virtù della facoltà dei singoli Stati membri di individuare quali formalità i soggetti passivi debbano rispettare per poter accedere all’agevolazione, è ammesso anche che una delle condizioni consista nell’obbligo di introdurre fisicamente la merce importata nel deposito Iva.
Di conseguenza, in mancanza di introduzione fisica del bene nel deposito, l’Iva risulta dovuta immediatamente al momento dell’importazione e quindi il suo assolvimento nel momento, differito, dell’estrazione, costituisce un pagamento tardivo. Importante risulta, tuttavia, la qualificazione dell’errore (in mancanza di un tentativo di frode) come “violazione di carattere formale”, che non solo non può mettere in discussione il diritto alla detrazione del soggetto passivo con conseguente richiesta dell’imposta già assolta mediante reverse charge, bensì anche che porta con sé i conseguenti aspetti sanzionatori.
In particolare, se da un lato la Corte afferma che la sanzione del 30% prevista per il tardivo versamento risulterebbe contraria al principio di proporzionalità, in quanto sarebbe applicata in misura fissa, senza un criterio di gradazione, dall’altro lato, a parere dell’Agenzia, invece, la “gradazione” della misura della sanzione viene garantita dalle previsioni dell’art. 13 del D. Lgs. n. 471/1997, che riduce le sanzioni per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni e cui può anche applicarsi l’istituto del ravvedimento operoso.
L’Agenzia, mutuando le indicazioni fornite dalla Agenzia delle Dogane con la Circolare n. 16/D/2014, individua il giorno di riferimento per i conteggi nel giorno in cui risulta annotata, nei registri contabili, l’autofattura di estrazione, precisando per altro che è proprio l’Agenzia delle Dogane il soggetto competente per l’irrogazione delle sanzioni, poiché relative ad una operazione, nella sostanza, di importazione di beni, per la quale non è stato effettuato in dogana il versamento di Iva esigibile.