Effetti dell’omesso reverse charge al vaglio della Corte di giustizia
di Marco PeiroloLa sentenza resa dalla Corte di giustizia nella causa C-691/17 dell’11 aprile 2019 (PORR) conferma l’orientamento giurisprudenziale in base al quale l’erronea applicazione dell’Iva ad una operazione soggetta al meccanismo del reverse charge non consente al cliente di esercitare la detrazione, potendo quest’ultimo chiedere il rimborso dell’imposta al fornitore o, se insolvente, direttamente all’Autorità fiscale.
Si tratta di una posizione riferita ad una vicenda positivamente regolata dalla nostra legislazione, sia pure in modo difforme (si veda l’articolo 6, comma 9-bis.1, D.Lgs. 471/1997).
Lo stesso orientamento è stato espresso nelle sentenze di cui alle cause C-564/15 del 26 aprile 2017 (Farkas) e C-424/12 del 6 febbraio 2014 (Fatorie).
In tutte le pronunce considerate, la fattura emessa dal fornitore è errata, in quanto contiene l’addebito dell’imposta per una operazione che vede come debitore del tributo il destinatario del documento.
In linea teorica, il cliente, in tale situazione, potrebbe ritenere che la detrazione sia comunque ammessa siccome quest’ultima, per le operazioni soggette ad inversione contabile, prescinde dal possesso di una fattura formalmente regolare, ma tale tesi è respinta dalla Corte.
Nell’analisi compiuta dai giudici UE, viene innanzi tutto osservato che, per le operazioni in reverse charge, l’articolo 178, lett. f), Direttiva 2006/112/CE non richiede, ai fini dell’esercizio della detrazione, il possesso di una fattura redatta in conformità ai requisiti formali previsti dalla stessa Direttiva, limitandosi a prevedere che il cliente deve a tal fine “adempiere alle formalità fissate da ogni Stato membro”.
Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia si desume che l’entità delle formalità stabilite dallo Stato membro interessato, che il soggetto passivo deve osservare per poter esercitare la detrazione, non può oltrepassare quanto è strettamente necessario per controllare la corretta applicazione della procedura di inversione contabile e per garantire la riscossione dell’Iva.
Spostando l’attenzione sulla natura dell’obbligo di reverse charge, la Corte ribadisce che, in base al principio di neutralità fiscale, la detrazione deve essere riconosciuta a condizione che siano rispettati i requisiti sostanziali.
Nel caso di specie, l’errore commesso dal fornitore in sede di fatturazione – vale a dire l’addebito dell’imposta e, conseguentemente, la mancata indicazione nel documento della dicitura “inversione contabile” – assume natura esclusivamente formale e, quindi, non incide sull’esercizio della detrazione; quest’ultimo deve però ritenersi precluso perché non risulta soddisfatto il requisito sostanziale previsto per le operazioni soggette ad inversione contabile, cioè l’applicazione dell’imposta da parte del cliente in conformità all’articolo 199 Direttiva 2006/112/CE.
La detrazione, nell’ipotesi considerata, risulta in ogni caso preclusa sulla base del principio, di portata più generale, in base al quale l’esercizio del diritto in esame è limitato alle imposte dovute, cioè a quelle corrispondenti ad un’operazione soggetta a Iva (causa C-454/98 del 19 settembre 2000, Schmeink & Cofreth e Strobel, e causa C-342/87 del 13 dicembre 1989, Genius Holding).
L’Iva che il cliente ha versato al fornitore non è dovuta e, quindi, la detrazione non spetta.
Passando ad esaminare i rimedi riconosciuti dalla giurisprudenza unionale per garantire la tutela dei princìpi di neutralità e di effettività, dalle pronunce sopra richiamate si desume che l’erroneo versamento dell’imposta da parte del fornitore, anziché dal cliente, non esclude il diritto dell’Erario di pretendere da quest’ultimo, cioè dal soggetto che si considera debitore d’imposta per l’operazione soggetta ad inversione contabile, il riversamento dell’Iva illegittimamente assolta dalla controparte.
A seguito, tuttavia, dell’indetraibilità dell’imposta pagata a titolo di rivalsa al fornitore, i princìpi di neutralità e di effettività esigono che il cliente possa recuperare in sede civilistica quanto indebitamente corrisposto alla controparte, con possibilità, a sua volta, per il fornitore, di chiedere all’Autorità fiscale la restituzione dell’imposta illegittimamente versata.
Dal lato del cliente, il limite della descritta modalità di recupero dell’imposta è dato dalla situazione di insolvenza in cui può eventualmente trovarsi il fornitore. Nei casi, più in generale, in cui il rimborso al cliente sia impossibile o eccessivamente difficile, i giudici dell’Unione consentono al medesimo di indirizzare la domanda di restituzione direttamente all’Autorità fiscale.
Il profilo sanzionatorio è stato esaminato nella causa C-564/15 (Farkas), affermando che il principio di proporzionalità impedisce alla normativa nazionale di applicare, nei confronti del cliente, la sanzione del 50% dell’imposta dovuta, in assenza di perdita di gettito e di indizi di frode fiscale. Di diverso avviso, l’Avvocato generale, che nelle conclusioni presentate il 10 novembre 2016, ha ritenuto che la sanzione in esame fosse legittima, siccome la legislazione nazionale sembra consentire la graduazione della sanzione sulla base degli elementi specifici del caso concreto, rispettando così il principio di proporzionalità come interpretato dai giudici della Corte (causa C-259/12, Rodopi‑M 91).