Il tema relativo al “transfer price” rappresenta da sempre un argomento connotato da grande incertezza applicativa, sia in ordine alle modalità pratiche di determinazione del valore da attribuire alle transazioni infragruppo, sia in relazione alla ripartizione dell’onere della prova tra Fisco e contribuente.
Sullo specifico argomento, la suprema Corte di cassazione, con la sentenza n. 21410 depositata in data 15 settembre 2017, ha sancito che spetta alla società verificata dimostrare che non ha attuato politiche elusive nella determinazione dei prezzi di trasferimento intercompany.
In merito, la tesi della difesa era incentrata sul fatto che l’applicabilità della disciplina del transfer price presuppone l’intento elusivo da parte del contribuente, con il conseguente onere del Fisco di dare la prova della superiorità del livello di tassazione in Italia rispetto al mercato di insediamento delle società estere.
Di contro a parere degli ermellini, sulla scorta del più recente orientamento espresso in sede di legittimità, la normativa prevista in tema di corretta determinazione dei prezzi di trasferimento infragruppo non integra una disciplina antielusiva in senso proprio, ma è finalizzata alla repressione del fenomeno economico del “transfer pricing”, che realizza uno “spostamento d’imponibile fiscale” Italia – estero a seguito di operazioni intercorse tra società appartenenti allo stesso Gruppo.
Sulla base di tale assunto, i giudici tributari hanno osservato che:
- la prova gravante sull’Amministrazione finanziaria non riguarda la maggiore fiscalità nazionale o il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l’esistenza di transazioni, tra imprese collegate ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale;
- incombe sul contribuente, sulla base delle regole ordinarie di vicinanza della prova ex articolo 2697 cod. civ. ed in materia di deduzioni fiscali, l’onere di dimostrare che tali transazioni siano intervenute a valori di mercato da considerarsi normali (in tal senso cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 18392/2015 e Corte di Cassazione, sentenza n. 10742/2013).
Tale ultimo orientamento, si pone in netto contrasto con il differente approccio espresso sempre dalla Corte di Cassazione, sezione Tributaria, nella sentenza n. 6656, depositata in data 6 aprile 2016, nella quale i Giudici di piazza Cavour hanno chiarito che grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare che un’operazione antieconomica realizzata mediante transazioni effettuate con una società controllata o controllante estera, sia riferibile ad un maggiore reddito imponibile.
In tale occasione il supremo giudice, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale espresso da parte del giudice di legittimità, ha affermato che l’onere di dimostrare che un’operazione economica realizzata all’estero, con una società controllata o controllante, costituisce un maggior reddito imponibile, è posto a carico dell’Amministrazione finanziaria.
In buona sostanza, sulla base delle argomentazioni logico – giuridiche espresse in quest’ultima sentenza, la prova della potenziale elusione fiscale e dei suoi presupposti grava sempre sull’Ufficio che intende operare le conseguenti rettifiche reddituali.