Emerge finalmente la distinzione tra valore e corrispettivo
di Giovanni ValcarenghiI decreti attuativi della Legge Delega di riforma del sistema fiscale (legge 11-03-2014 n.23) spaziano in ambiti molto differenziati e contengono numerose disposizioni che possono incidere sulla operatività quotidiana dei professionisti; in particolar modo, appare denso di novità il c.d. decreto “crescita ed internazionalizzazione delle imprese”.
Nell’attesa di verificare quale sarà (e, vista l’esperienza passata, quando verrà alla luce) la versione definitiva, appare utile segnalare una disposizione che attiene al legame esistente tra il concetto di “valore” e quello di “corrispettivo” nell’ambito tributario.
Il solo fatto di evocare congiuntamente i due termini, fa subito venire alla mente le problematiche attinenti la cessione di immobili e/o di aziende, nell’ambito delle quali le parti potrebbero ben accordarsi per convenire lo scambio di un bene (che sia semplice o complesso, poco importa) ad un corrispettivo inferiore rispetto al valore. Ciò potrebbe accadere per svariate motivazioni, prima fra tutte l’esigenza immediata di liquidità del cedente, oppure l’esistenza di un particolare momento di ribasso delle quotazioni di mercato, sia pure non definitivo.
L’esistenza di tali situazioni determina spesso la seguente situazione:
- l’Amministrazione contesta la base imponibile (valore) ai fini delle imposte indirette (ad esempio, registro);
- il contribuente valuta come non conveniente l’attivazione di un contenzioso e decide di aderire alla proposta, magari con il solo intento di ridurre l’importo delle sanzioni (normalmente la valutazione viene fatta dall’acquirente);
- l’Amministrazione, sulla scorta del maggior valore definito, contesta al venditore (al ricorrere delle condizioni previste) una maggiore plusvalenza sulla cessione, sostenendo che il minor corrispettivo pattuito non sia credibile rispetto al maggior valore accertato.
Che, sul versante teorico, i due concetti siano su due pianeti completamente differenti poco conta, tant’è che la Cassazione ha spesso avvalorato tale ricostruzione, sia pure introducendo alcuni paletti all’operato del fisco.
Ecco che, su tale argomento, si riscontra, proprio nel decreto crescita ed internazionalizzazione un intervento contenuto nel comma 2 dell’articolo 5 dell’articolato in bozza.
La norma prevede che: gli articoli 58, 68 e 86 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e gli articoli 5, 6 e 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore dichiarato o accertato ai fini dell’imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, ovvero ai fini delle imposte ipotecaria e catastale di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347.
Da una prima lettura del testo, si potrebbe affermare (in senso ironico) che la disposizione è pienamente conforme alla rubrica della norma; infatti, si rinviene il carattere della “crescita” culturale per il solo fatto che la distinzione tra valore e corrispettivo è finalmente emersa, come pure si rinviene il carattere della “internazionalizzazione” nell’adeguamento del nostro ordinamento (e del pensiero di parte della giurisprudenza di legittimità) al basilare concetto in forza del quale, per poter contestare un maggior corrispettivo, risulterà necessario dimostrarne l’incasso o la pattuizione in misura maggiore rispetto a quella formalmente risultante dagli accordi.
Anche l’incipit promette bene, introducendo una disposizione che ha tutto il sapore della norma interpretativa, come può desumersi dalla relazione tecnica di accompagnamento; ciò a prescindere dalle indicazioni presenti nei Dossier del Servizio Studi di Camera e Senato, dove invece si intenderebbe differire l’efficacia al periodo di imposta successivo a quello di entrata in vigore della norma, fraintendendo le prescrizioni dello Statuto dei diritti del contribuente.
Dal punto di vista degli effetti pratici, si potrebbe affermare che:
- in merito alle cessioni immobiliari, si conferma di fatto l’approdo cui erano già giunte la prassi e la giurisprudenza, escludendo un accertamento meramente fondato sulla definizione di un maggior valore ai fini delle imposte indirette (anche se numerosi uffici locali continuino a contestare in automatico la maggiore plusvalenza al cedente);
- in merito ai trasferimenti d’azienda, invece, la modifica appare più pregnante, in quanto la prassi e la giurisprudenza tendevano a legittimare la rettifica, con un laconico calmiere consistente nella possibilità, per il contribuente, di dimostrare con ogni mezzo di prova la correttezza del proprio operato. Per conseguenza, il disallineamento (nel futuro) sarà sempre un indizio dal quale poter ricavare una possibile patologia, pur con l’onere, addossato all’Agenzia, di motivare quali possano essere (nel caso specifico) gli altri elementi che contribuiscono a rafforzare tale presunzione.
Ancora una volta, dunque, pur salutando con parziale favore l’intervento, sorge una perplessità di fondo: ma davvero è necessaria una norma di interpretazione autentica per affermare un principio che appare sacrosanto?
Forse poteva bastare un pizzico di logica e di tecnica in più, rispetto a quanto ad oggi riscontrato.
Sotto altro aspetto, le novità in cantiere suggeriscono a tutti coloro che avessero delle controversie pendenti di resistere, nell’attesa del varo ufficiale della disposizione che, si ripete, non fa altro che attestare un concetto che, già oggi, dovrebbe ricavarsi da una corretta interpretazione delle norme.