Esclusi i benefici convenzionali sui dividendi per la società schermo
di Marco BargagliPrima di affrontare il tema dell’abuso delle disposizioni convenzionali, giova evidenziare che, a livello domestico, la normativa prevede specifiche regole riferite al trattamento fiscale dei dividendi, articolate sulla base di una duplice direttrice:
- il regime del rimborso (ex articolo 27-bis, comma 1, D.P.R. 600/1973) che prevede il ristorno della ritenuta alla fonte corrisposta al momento del pagamento dei redditi nei confronti della casa madre non residente. In tale prima circostanza, la società figlia residente in Italia, applicando la direttiva madre-figlia, opera una ritenuta alla fonte a titolo di imposta pari al 1,20% (ex articolo 27, comma 3-ter, D.P.R. 600/1973); successivamente, il soggetto estero che ha percepito i dividendi potrà richiedere il rimborso della tassazione subita a titolo d’imposta;
- il regime dell’esenzione (articolo 27-bis, comma 3, D.P.R. 600/1973).
In tale seconda ipotesi, il soggetto residente in Italia che ha erogato i redditi all’estero, in linea con le disposizioni previste dalla Direttiva madre-figlia, su richiesta del soggetto non residente può direttamente evitare l’applicazione della ritenuta alla fonte a titolo di imposta nella misura indicata nell’articolo 27, comma 3-ter, D.P.R. 600/1973. In siffatto contesto, attuando manovre elusive operate da parte di Gruppi multinazionali, il treaty shopping viene considerato un pernicioso fenomeno di elusione fiscale finalizzato ad ottenere un indebito risparmio d’imposta, mediante il quale si tende a sfruttare indebitamente il regime vantaggioso contenuto in una o più Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sul reddito, attraverso l’artificiosa localizzazione di una struttura economica (c.d. conduit company o società veicolo) in uno dei Paesi aderenti ad una determinata Convenzione internazionale, affinché detta struttura diventi funzionale alla fruizione delle agevolazioni previste da un trattato internazionale, altrimenti non spettanti.
La Direttiva madre-figlia non fa richiamo alla clausola antiabuso del beneficiario effettivo prevista, invece, per la direttiva comunitaria interessi e canoni.
Tuttavia, l’articolo 1, paragrafo 2, della Direttiva madre-figlia, rende, comunque, operante “l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali necessarie per evitare le frodi e gli abusi”.
Per tale motivo, il legislatore aveva inizialmente introdotto, nel nostro ordinamento, una disposizione antielusiva specifica contenuta nell’articolo 27-bis, comma 5, D.P.R. 600/1973, il quale disponeva che quando la società “madre”, risulta controllata direttamente o indirettamente da uno o più soggetti non residenti in uno degli Stati dell’Unione europea, il regime di esonero dall’applicazione della ritenuta a titolo d’imposta, si applica a condizione che la società comunitaria “dimostri di non detenere la partecipazione allo scopo esclusivo o principale di beneficiare del regime in esame” ponendo, quindi, l’onere della prova a carico del soggetto estero che percepisce i dividendi, che dovrà dimostrare le valide ragioni economiche sottostanti alla detenzione della partecipazione nella società figlia italiana.
Successivamente, con riferimento alle remunerazioni corrisposte dall’1.1.2016, il comma 5, del citato articolo 27-bis, D.P.R. 600/1973, è stato sostituito dall’articolo 26, comma 2, lett. b), L. 122/2016.
In estrema sintesi, attualmente, in attuazione della direttiva comunitaria 2015/121 del 27.1.2015, le disposizioni antielusive in tema di dividendi sono disciplinate nel nostro ordinamento nazionale con l’applicazione dell’articolo 10-bis, L. 212/2000 (recante la disciplina dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale).
Nello specifico, qualora non si renda applicabile l’esenzione dalla ritenuta alla fonte, prevista dal citato articolo 27-bis, comma 3, D.P.R. 600/1973:
- in ambito Extra-UE, ai sensi dell’articolo 27, comma 3, D.P.R. 600/1973, la ritenuta è operata a titolo di imposta e con l’aliquota del 27% sugli utili corrisposti a soggetti non residenti nel territorio dello Stato;
- in ambito UE, ai sensi dell’articolo 27, comma 3-ter, D.P.R. 600/1973, la ritenuta è operata a titolo di imposta e con l’aliquota dell’1,20 % sugli utili corrisposti alle società e agli enti soggetti ad un’imposta sul reddito delle società negli Stati membri dell’Unione europea e negli Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo che sono inclusi nella lista di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle Finanze emanato ai sensi dell’articolo 168-bis, Tuir.
Sempre in ottica antiabuso, l’edizione 2014 del modello Ocse di Convenzione (e relativo Commentario) prevede che è considerato il beneficiario effettivo dei flussi reddituali, quando il percettore dei redditi goda del semplice diritto di utilizzo dei flussi reddituali (right to use and enjoy the interest) e non sia, conseguentemente, obbligato a retrocedere gli stessi ad altro soggetto, sulla base di obbligazioni contrattuali o legali, desumibili anche in via di fatto (unconstrained by a contractual or legal obligation to pass on the payment received to another person).
Ciò posto, importanti principi di diritto in tema di ritenuta alla fonte a titolo d’imposta da applicare sui dividendi, sono stati diramati dalla suprema Corte di cassazione, con la recente sentenza n. 10305/2024 pubblicata in data 16.4.2024.
Gli ermellini, hanno sancito che, in presenza di una struttura societaria non genuina (c.d. società schermo), la normativa convenzionale prevale su quella domestica, solo se viene escluso il carattere abusivo dell’operazione posta in essere.
A parere degli Ermellini, il Commentario OCSE stabilisce che “l’utilizzo di società schermo può essere contrastato anche con disposizioni in materia di imprese estere partecipate” e che una caratteristica delle varie legislazioni “è quella di consentire ad uno Stato contraente di assoggettare ad imposta i residenti sul reddito attribuibile alle partecipazioni detenute in determinati stati esteri”.
In sintesi, il ragionamento nel merito espresso da parte del giudice del gravame, secondo cui la normativa convenzionale doveva comunque prevalere, avrebbe dovuto basarsi sulla negazione del carattere elusivo dell’operazione.
Lo stesso Commentario OCSE ammette, infatti, che i singoli Paesi contraenti possono adottare una disciplina antielusiva nei confronti di società schermo, ed esclude la fondatezza dell’interpretazione delle norme convenzionali, nel senso che le stesse ostino all’assoggettamento ad imposta dei residenti sul reddito attribuibile alle partecipazioni detenute in determinati Stati esteri.
In tale contesto, l‘elusione fiscale, quale espressione dell’abuso del diritto, in ossequio ai principi espressi dalla raccomandazione n. 2012/772/UE, sussiste quando l’operazione economica esaminata manchi di sostanza economica, i cui indici sono rappresentati dalla non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e dalla non conformità degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato, mentre per vantaggi fiscali indebiti si considerano i benefici realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario (Cassazione n. 34595/2019).
Rilevano i supremi giudici che occorre sempre garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un differente carico fiscale (Cassazione n. 439/2015; Cassazione n. 3938/2014); libertà che, tuttavia, incontra il limite dell’uso distorto degli strumenti giuridici, come nelle ipotesi in cui l’operazione difetti di ragioni economicamente apprezzabili, diverse dalla mera aspettativa di benefici fiscali.
In definitiva, la “società schermo” è una costruzione artificiosa finalizzata ad eludere la normativa degli Stati membri; la sua funzione essenziale non è quella di raggiungere un risultato sostanzialmente economico ma, piuttosto, ottenere un vantaggio fiscale, tramite un raggiro della ratio della norma tributaria.
Pertanto, la figura della “società schermo” è una forma di abuso del diritto, rilevante sia ai fini civilistici, come risultato dell’esercizio di un diritto oltre il limite “funzionale”, implicitamente previsto dalla singola norma, sia a fini tributari, quale strumento asservito al raggiungimento di un mero beneficio fiscale indebito.
I giudici di piazza Cavour, facendo riferimento alla costante giurisprudenza della Corte di giustizia europea, concludono che la costruzione di puro artificio è quella finalizzata ad eludere la normativa dello Stato membro interessato, creando catene di società prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale, giustificando così una legislazione nazionale restrittiva della libertà di stabilimento.
Ciò significa che, al legislatore nazionale, è consentito di prevedere una disciplina antielusiva domestica, finalizzata ad evitare, tra l’altro, che la disciplina pattizia possa essere strumentalizzata al fine di favorire finalità elusive.