29 Settembre 2014

Esterovestizione e radicamento della società estera in un Paese UE

di Alessandro GrassettoAlice PaccagnellaAntonio Panizzolo
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Non vi può essere esterovestizione societaria in presenza di un insediamento produttivo effettivo in un altro Paese comunitario, giacché il fenomeno dell’esterovestizione sussiste esclusivamente in presenza di una
costruzione meramente artificiosa. Questo è il principio ribadito, di recente, dalla sentenza della
Commissione Tributaria Provinciale di Verona, n.327/2014 del 21 luglio 2014.
Nella fattispecie sottoposta ai Giudici tributari, l’Agenzia delle Entrate ha riqualificato come soggetto passivo italiano una
società slovacca appartenente ad un gruppo societario comunitario con capogruppo in Italia, valorizzando il criterio del collegamento della sede dell’amministrazione in base all’art. 73, comma 3, TUIR.
L’Agenzia delle Entrate, in particolare, non ha mai messo in discussione che la società estera fosse effettivamente insediata al di fuori dell’Italia; al contrario, dava per scontato che essa
fosse realmente strutturata, avesse un’organizzazione di mezzi e di persone ed esercitasse in concreto l’attività di impresa in Slovacchia.
Ciononostante, a suo modo di vedere, sussistevano alcuni indizi, quali la
residenza in Italia degli amministratori e la
presenza di documentazione della controllata presso la sede della capogruppo italiana, che sarebbero stati sufficienti a dimostrare che la sede della direzione effettiva della società estera era in Italia e che, pertanto, i ricavi prodotti dalla stessa dovessero essere assoggettati alla tassazione nazionale ai fini IRES, IRAP ed IVA.
Tale interpretazione dell’art.73, comma 3 del TUIR è stata perentoriamente censurata dai Giudici di prime cure, che l’hanno ritenuta
in contrasto con la normativa comunitaria in materia di libertà di stabilimento.
Il Collegio ha ricordato che la libertà di stabilimento è un diritto riconosciuto dalla normativa comunitaria ai sensi degli artt. 43 e seguenti del Trattato della Comunità Europea (ora artt. 49 e ss. del TFUE) e che tale diritto subisce una sola eccezione: ossia l’ipotesi in cui la società costituita all’estero rappresenti una
costruzione meramente artificiosa, artefatta, al solo scopo di eludere l’imposta ordinariamente dovuta.
Sicché, se l’ordinamento circoscrive le restrizioni al diritto di stabilimento alle sole situazioni in cui sussistono pratiche abusive, allora è naturale giungere alla conclusione che
non possa essere mossa la contestazione di esterovestizione in presenza di uno stabilimento produttivo effettivamente insediato in un altro Paese comunitario.
Nella sentenza, inoltre, viene precisato che tale impostazione è
coerente con l’orientamento della giurisprudenza comunitaria e nazionale, giacché la Corte di Giustizia UE, la Corte di Cassazione e le Commissioni Tributarie inquadrano l’esterovestizione come un fenomeno di fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero o, il che è lo stesso, come un fenomeno di costruzione di puro artificio, finalizzato a sfruttare trattamenti fiscali più vantaggiosi rispetto a quelli nazionali.
Il
principio di libertà di stabilimento, dunque, oltre ad essere un principio costitutivo fondamentale dell’Unione Europea, deve fungere anche da
canone interpretativo di riferimento per un’applicazione equilibrata delle norme degli Stati membri che regolano la materia della residenza fiscale. In virtù di ciò, non potrebbe trovare spazio qualsiasi opzione ermeneutica dell’art. 73, comma 3, del Tuir che porti a disconoscere la residenza nel Paese in cui una società è effettivamente impiantata, in forza del
concreto esercizio di un’attività imprenditoriale.
Secondo l’impostazione dei Giudici veronesi, una società che effettivamente radica la propria attività produttiva in un altro Stato comunitario non pone in essere alcun comportamento elusivo od abusivo meritevole di essere represso dagli ordinamenti degli altri Stati dell’Unione Europea.
A ben vedere, tale conclusione poteva essere raggiunta anche
senza scomodare il diritto alla libertà di stabilimento, muovendo, più semplicemente, dal
concetto di “place of effective management”, criterio elaborato nel modello di convenzione OCSE per la risoluzione dei conflitti di residenza delle persone giuridiche.
Il criterio di cui sopra è stato recepito in Italia come la
sede della direzione effettiva, in linea con il significato del termine “
management”, che afferisce per l’appunto alla direzione o gestione o governo effettivo di una struttura societaria.
Nella fattispecie oggetto della sentenza in commento, la società ricorrente è stata in grado di dimostrare che aveva una
propria struttura radicata nel territorio slovacco e che si avvaleva delle risorse proprie di quel territorio (personale, uffici, beni strumentali, materiali di consumo, finanziamenti, consulenti e così via). La genuinità dell’iniziativa economica ha portato al compimento di molteplici atti di organizzazione e di impulso dell’attività imprenditoriale in Slovacchia, che non hanno e non avrebbero potuto avere alcun collegamento con il territorio italiano: ha portato, in altri termini, alla
localizzazione all’estero della sede della direzione effettiva o del place of effective management.
Seguendo questa impostazione, fenomeni di esterovestizione, intesi come
dissociazione tra sede amministrativa formale e sede amministrativa sostanziale, si possono ravvisare solamente quando, in mancanza di radicamento in un altro Paese, emergono forti dubbi sull’
effettività di un’iniziativa imprenditoriale in quel Paese.