25 Ottobre 2013

Falcidia IVA in concordato, ben lungi dalla certezza

di Claudio Ceradini
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Abbiamo avuto modo di soffermarci sul tema della falcidiabilità dell’IVA nel piano concordatario, (Più ampi gli spiragli per la falcidia IVA in concordato, su Euroconference NEWS dell’11 settembre 2013) e con certo grado di ottimismo avevamo interpretato l’orientamento di alcuni Tribunali (Cosenza – Sezione Fallimentare, 29.05.2013 e Genova – Corte d’Appello Rep. 1326, depositata il 27/07/2013) che, aderendo a quanto contenuto nelle Relazioni di accompagnamento sia al D.L. 185/2008 (art. 32) che anche e soprattutto del D.L. 78/2010 (art. 29) con certa chiarezza riferivano all’adozione dello strumento transattivo di cui all’art.182 ter L.F. la capacità protettiva dell’integrità del debito erariale, per IVA e ritenute operate e non versate, assegnando di conseguenza alla norma carattere meramente processuale, e discostandosi dall’orientamento consolidatosi a seguito della emanazione delle due sentenze gemelle (22931/2011 e 22932/2011) con cui la Corte di Cassazione le ha invece assegnato valenza sostanziale, e quindi generale.

La questione è estremamente importante e dal punto di vista operativo talvolta dirimente. E’ un dato di fatto che consistenti debiti erariali sono parte anche rilevante della situazione patrimoniale di chi si approccia alla procedura concordataria, e raramente si tratta IRES o IRAP non versate. Il debito per IVA e per ritenute operate non versate è tipicamente parte del passivo concordatario, ed è facilmente intuibile quanto sia importante comprendere l’orientamento dei Tribunali, per poter costruire un piano concordatario sostenibile, fattibile, e quindi attestabile. Ogni qualvolta si presenti la necessità di ricorrere all’art. 160, co. 2, L.F. per mancanza di risorse, non è secondario sapere se un debito che nell’ordine delle prelazioni di cui agli artt. 2741, 2777 e 2778 C.C. si trova al 18mo posto debba obbligatoriamente essere integralmente soddisfatto, con buona pace degli altri e della par condicio, o meno.

Al momento, dobbiamo purtroppo constatare che la speranza di verificare una interpretazione, auspicabilmente nel senso della liceità della falcidia, ma perlomeno univoca, è miseramente crollata quando due settimane fa, a distanza di pochi giorni uno dall’altro, due autorevoli tribunali, Padova e Busto Arsizio, hanno interpretato in modo totalmente opposto fattispecie assolutamente analoghe.

Il primo, con sentenza del 3 ottobre 2013, depositata il successivo 11 ottobre, giudica inammissibile una proposta di concordato preventivo che prevede il pagamento del debito per IVA nella misura del 28%. Il Tribunale ripercorre nella sentenza le medesime ragioni addotte dalla Cassazione, e cioè

  1. l’impossibilità di riduzione dei debiti che costituiscono risorse proprie dell’Unione Europea, e che godrebbero di un regime di tutela tale da sconvolgere, e non di poco nella realtà, l’ordine dei privilegi;

  2. la formulazione dell’art. 7 co. 1, L. 3/2012 (disciplina della crisi da sovraindebitamento per i soggetti non fallibili) che contenendo un generale obbligo di soddisfazione integrale del debito erariale per i tributi propri dell’Unione Europea, consentirebbe di estenderne la portata anche alla disciplina concordataria.

Conclude il Tribunale rilevando come, se così non fosse, si creerebbe una disparità di trattamento tra imprenditori fallibili e non, non considerando peraltro, nel medesimo momento, come tale impostazione conduca ad altrettanta e clamorosa disparità di trattamento nell’ambito dei debitori fallibili, e cioè tra coloro che accedono al concordato, e quelli sottoposti a fallimento, ove l’integrità del debito IVA non è nemmeno ipotizzabile. E non si può nemmeno dire che nel caso di fallimento la falcidiabilità è norma eccezionale a favore del ceto creditorio, essendo in realtà accessibile anche nelle procedure esecutive individuali, tra soggetti in bonis.

Nel senso opposto il Tribunale di Busto Arsizio che con sentenza n. 15/2013 del 4 ottobre 2013, depositata il 7 ottobre, dichiara ammissibile, aprendo la procedura, una proposta in cui si prevede il pagamento del debito IVA nella misura del 2%, discostandosi quindi dall’orientamento di merito. Il Tribunale richiama nello sviluppo delle motivazioni, le già citate Relazioni di accompagnamento ai decreti modificativi dell’art. 182 ter LF, ed evidenzia come l’integrità del debito IVA nel piano concordatario sia comprensibile e giustificabile nell’ambito della transazione fiscale, in cui la proposta è assoggettata alla valutazione dei funzionari degli enti impositori, che non possono godere di margini di libertà che contrastino con gli impegni assunti dallo Stato con l’Unione Europea, ma non in via generale, stante anche il divieto di interpretazione analogica di norma eccezionale disposto dall’art. 14 delle preleggi. Conclude il Tribunale confermando quindi il legame tra intangibilità del credito erariale e adozione della transazione fiscale, che se consente consolidamento del debito e l’estinzione dei giudizi pendenti, obbliga per contro al pagamento integrale. La scelta sta al debitore, che decide se utilizzare o meno l’istituto, avendo in considerazione la propria situazione generale e la disponibilità che l’attivo concordatario offre E’ opzione disponibile al debitore, unico che possa e debba soppesarne vantaggi e svantaggi.

Posizione parzialmente diversa, anche se in linea con l’orientamento di merito, è quella del Tribunale di Verona, che con sentenza depositata il 10 aprile 2013 ha sollevato il problema della costituzionalità di un disposto normativo che conducendo alla inammissibilità de plano delle proposte che includano la falcidia del debito per IVA o ritenute, impedisce alla Pubblica Amministrazione di tutelare il proprio interesse, quando ipotesi di liquidazione diverse da quella concordataria presentino condizioni evidentemente peggiorative, e contrastando tale quadro con il disposto dell’art. 94 della Costituzione.

Il tema è decisamente significativo, e rischia di consegnare l’esito di anche complessi e costosi piani di risanamento all’orientamento, evidentemente lungi dall’essere omogeneo, dei Tribunali. E’ innegabile che un intervento legislativo chiaro ed inequivocabile sia auspicabile quanto urgente. Nella gestione, complessa e rischiosa, del risanamento d’impresa, cui così incisivamente la riforma del settembre 2012 della Legge Fallimentare ha contribuito, fornendo strumenti e colmando lacune, l’ultima cosa di cui si sente il bisogno è una condizione di incertezza radicale su un tema così significativo, e potenzialmente dirimente tra prosecuzione o definitiva chiusura dell’attività imprenditoriale.