Fallimento: niente compenso al curatore “distrattario”
di Angelo GinexIn tema di fallimento, non ha diritto alla liquidazione del compenso dell’attività svolta, il curatore rinunciatario all’incarico che, nell’espletamento di tale mandato, abbia posto in essere una condotta illecita, consistente nella distrazione di somme dalla cassa della procedura, in quanto fattispecie di grave inadempimento che giustifica lo scioglimento dall’obbligazione di pagamento del compenso, eccepibile da parte del fallimento per il venir meno del rapporto fiduciario, anche nell’ipotesi in cui questi abbia restituito le somme distratte.
Sono queste le conclusioni desumibili dall’ordinanza n. 8530, depositata ieri 17 marzo dalla Corte di Cassazione, in relazione ad una vicenda che ha visto agire in giudizio l’ex curatore di una procedura fallimentare, con l’intento di ottenere dalla stessa il compenso per l’attività svolta.
Più precisamente, il Tribunale di Monza rigettava con decreto l’istanza di liquidazione del compenso dell’attività svolta che era stata presentata da un curatore fallimentare rinunciatario all’incarico.
La decisione di rigetto si fondava essenzialmente sulla relazione presentata dal curatore subentrante, il quale aveva evidenziato le gravi condotte tenute dal suo predecessore (in particolare, l’ex curatore aveva distratto una somma pari a 42.000 euro dalla cassa della procedura fallimentare e per tale motivo era stato sottoposto a procedimento penale conclusosi con l’emanazione di una sentenza di patteggiamento); inoltre, secondo il Tribunale, tale condotta illecita costituiva di per sé una fattispecie di grave inadempimento da giustificare lo scioglimento dall’obbligazione di pagamento del compenso, eccepibile da parte del fallimento per il venir meno del rapporto fiduciario ex articolo 1460 cod.civ.; da ultimo, si rilevava che alcuna valenza poteva assumere la successiva restituzione della somma distratta.
Pertanto, il curatore “distrattario” proponeva ricorso per cassazione affidato a tre motivi, con i quali denunciava la violazione e falsa applicazione dell’articolo 444 c.p.p. e degli articoli 115 e 116 c.p.c., sostenendo che la procedura di patteggiamento non contempla un accertamento di responsabilità penale e che, comunque, la procedura non aveva subito alcun danno dalla sua condotta attesa la restituzione delle somme distratte; la violazione e falsa applicazione dell’articolo 39 l.f., degli articoli 2230, 2232, 2233 e 2234 cod.civ., dell’articolo 1460 cod.civ. e del D.M. 25/01/2012, n. 30, rilevando che il Tribunale aveva qualificato la sua condotta come un grave inadempimento nei confronti del fallimento, pur in mancanza di un accertamento della sua responsabilità penale, così finendo per non tener conto dell’attività svolta e, quindi, per non liquidare il compenso ad egli spettante; infine, la violazione e falsa applicazione dell’articolo 39 L.F. e degli articoli 101 e 737 e ss. c.p.c., nonché la nullità del decreto impugnato per difetto di motivazione, mancando un riferimento alla documentazione rilevante.
Ebbene, la Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibili tutti e tre i motivi sopra indicati, segnatamente sulla base della considerazione per la quale le doglianze avanzate sarebbero dirette ad un riesame del merito della causa, ovvero a ribaltare la valutazione delle prove utilizzate dal Tribunale, attività precluse in sede di legittimità.
Ad ogni buon conto, giova sottolineare che la Corte di Cassazione ha comunque fornito interessanti spunti di riflessione, così come quando ha affermato che la sentenza di patteggiamento, pur non configurando una sentenza di condanna, può essere utilizzata per desumerne indizi afferenti alla responsabilità per la distrazione di somme di denaro dalla cassa della procedura, presupponendo comunque una ammissione di colpevolezza; pertanto, essa rappresenta un importante elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda discostarsene, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (cfr., Cass. Sent. n. 30328/2017; Cass. Sent. n. 398/2016).
In considerazione di ciò, quindi, la Suprema Corte ha osservato che nel caso di specie, l’ex curatore non ha negato di essersi appropriato in modo illecito della somma di euro 42.000 dalla cassa della procedura, anzi ha ammesso anche di averla restituita; quindi, secondo i giudici di vertice, non sussiste alcun dubbio in merito alla grave violazione degli obblighi su di esso gravanti in qualità di curatore fallimentare, condotta che ha legittimato la statuizione di rigetto, di cui viene chiesta inammissibilmente una diversa valutazione.
Quanto poi al difetto di motivazione del decreto impugnato, i giudici di legittimità hanno osservato che questo è adeguatamente motivato nell’escludere la possibilità di chiedere la liquidazione del compenso da parte del curatore “distrattario”, la cui condotta gravemente illecita ha fatto venir meno il rapporto fiduciario che caratterizza la sua attività.
Per le suesposte ragioni, il ricorso è stato quindi dichiarato inammissibile, con condanna dell’ex curatore anche al pagamento delle spese di lite e dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.