Falsa dichiarazione d’intento e responsabilità del fornitore
di Sandro Cerato - Direttore Scientifico del Centro Studi TributariAlcune sentenze della Corte di Cassazione hanno portato alla ribalta una questione già ampiamente dibattuta in dottrina, ovverossia quella della responsabilità del fornitore dell’esportatore abituale che rilascia una dichiarazione d’intento “falsa”, vale a dire in assenza dello “status” di esportatore abituale. Come si vedrà meglio nel seguito, secondo la Cassazione, il fornitore è responsabile del pagamento dell’imposta dovuta laddove lo stesso sia consapevole della falsità della dichiarazione d’intento ricevuta.
La sentenza n. 16819/2008 della Corte di Cassazione scaturisce da un’attività accertativa posta in essere nei confronti di società operanti su tutto il territorio nazionale nel commercio di pneumatici. In particolare, lo schema fraudolento riguarda una società residente in un paradiso fiscale che, tramite società interposte residenti in Italia, effettua acquisti in sospensione d’imposta rilasciando dichiarazioni d’intento da ritenere, secondo la Corte, ideologicamente false. I beni acquistati da tali società “fittizziamente interposte”, come si legge nella sentenza, sono successivamente venduti ad una società italiana, la quale è poi lo stesso soggetto che in precedenza aveva fornito le società “fantasma” senza applicazione d’imposta ai sensi dell’articolo 8, comma 2, D.P.R. 633/1972, dietro rilascio di dichiarazioni d’intento false.
Con tale comportamento, la società italiana procede alla richiesta di rimborso dell’imposta a credito, scaturente dall’imposta assolta sugli acquisti presso le società sedicenti “esportatrici abituali” (l’imposta a debito è pari a zero, in quanto, come detto, le società interposte rilasciano dichiarazione d’intento).
Il punto di partenza per analizzare i profili di responsabilità del fornitore dell’esportatore abituale è senz’altro il seguente: un soggetto passivo d’imposta che riceve una dichiarazione d’intento può rifiutarsi di effettuare operazioni senza applicazione dell’imposta? In altre parole, di fronte al rilascio di una dichiarazione d’intento, a mezzo della quale il cliente si qualifica come esportatore abituale, il fornitore deve porre in essere qualsivoglia attività “ispettiva” al fine di valutare la veridicità di tale dichiarazione, o può ritenersi esonerato da qualsiasi responsabilità in merito?
La risposta a tali questioni, evidentemente, non è del tutto agevole, premettendo tuttavia che, in linea di principio, il rilascio della dichiarazione d’intento, al pari delle dichiarazioni per poter usufruire di aliquote ridotte, costituisce un “diritto” per l’acquirente/committente, ed un “dovere” per il cedente/prestatore. Se questo costituisce il punto di partenza, evidentemente la sentenza della Corte in oggetto costituisce un “precedente” che deve preoccupare i soggetti che ricevono dichiarazioni d’intento mendaci, o quantomeno “sospette”.
Per poter fornire una risposta agli interrogativi poc’anzi esposti, l’analisi non può che partire dal quadro normativo esistente in materia, e più precisamente dalle disposizioni che riguardano gli obblighi e le conseguenti sanzioni in capo al fornitore dell’esportatore abituale.
Le disposizioni di riferimento sono le seguenti:
- articolo 8, comma 2, D.P.R. 633/1972, secondo cui le cessioni nei confronti degli esportatori abituali sono effettuate senza pagamento dell’imposta “su loro dichiarazione scritta e sotto la loro responsabilità”;
- articolo 7, comma 3, D.Lgs. 471/1997, in cui sono codificati due comportamenti sanzionabili:
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- il primo riferito all’effettuazione di operazioni senza addebito d’imposta in mancanza della dichiarazione d’intento, nel qual caso il fornitore è punito con la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento dell’imposta, fermo restando l’obbligo di pagamento del tributo;
- il secondo, invece, relativo al rilascio di una dichiarazione d’intento in mancanza dei presupposti richiesti dalla Legge, ossia in assenza dello status di esportatore abituale, nel qual caso si prevede che “dell’omesso pagamento del tributo rispondono esclusivamente i cessionari, i committenti e gli importatori che hanno rilasciato la dichiarazione stessa”.
Dal breve quadro normativo sopra riportato, emerge con chiarezza che l’unica fattispecie di responsabilità del fornitore dell’esportatore abituale è quella connessa all’effettuazione di operazioni senza pagamento del tributo in mancanza della dichiarazione d’intento (primo periodo del comma 3, dell’articolo 7, D.Lgs. 471/1997), e non anche laddove la dichiarazione d’intento sia stata rilasciata, ipotesi in cui le disposizioni riportate prevedono un’esclusiva responsabilità in capo al cessionario, ossia al soggetto che ha rilasciato tale dichiarazione.
Sembrerebbe, pertanto, da quanto sopra descritto, che il cedente dell’esportatore abituale che riceve la dichiarazione d’intento non sia chiamato ad effettuare alcuna attività in merito alla veridicità di tale dichiarazione (salvo l’obbligo di verifica dell’avvenuto invio telematico all’Amministrazione finanziaria), atteso che dell’eventuale mancanza a monte dei presupposti per il rilascio della stessa risponde in modo esclusivo il cessionario/committente dell’operazione.
Tuttavia, come dimostra la sentenza in oggetto, non è sostenibile l’assoluta deresponsabilizzazione del fornitore dell’esportatore abituale, che si poggia essenzialmente sui seguenti punti:
- come emerso dal procedimento penale, il fornitore è consapevole della falsità della dichiarazione d’intento (e quindi “non poteva non sapere”);
- l’imposta è dovuta, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, D.P.R. 633/1972, dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, con la conseguenza che il cedente sarebbe chiamato ad assolvere il tributo non applicato;
- secondo l’Amministrazione finanziaria, il caso di specie riguarda il cessionario che ha emesso una dichiarazione d’intento non fuori dei presupposti di Legge, bensì ideologicamente falsa in quanto non intende affatto effettuare cessioni all’esportazione, pur in presenza di un plafond disponibile (derivante dall’effettuazione di esportazioni nell’anno precedente). Tale ipotesi, sempre secondo l’Amministrazione finanziaria, non rientra nell’ambito applicativo dell’articolo 7, comma 3, D.Lgs. 471/1997, che nulla ha a che vedere in tale indagine, con la conseguenza che non vi è alcuna norma specifica che concentri sul solo cessionario le conseguenze della falsa dichiarazione.
A parere di chi scrive, sono opportune le seguenti riflessioni:
- in merito alla consapevolezza del fornitore sulla falsità della dichiarazione d’intento, è bene ricordare che già in sede di giurisprudenza comunitaria, la Corte di Giustizia ha limitato, in funzione della buona fede, la responsabilità del soggetto cedente in regime di non imponibilità per cessioni intracomunitarie di beni che in realtà non uscivano realmente dal Paese di partenza;
- il principio, certamente chiaro, espresso dall’articolo 17, comma 1, D.P.R. 633/1972, secondo cui il soggetto passivo dell’imposta è il cedente/prestatore non significa che non vi possano essere deroghe in tal senso. Più precisamente, si pensi a tutti quei casi in cui, in relazione alla posizione soggettiva del cessionario, quest’ultimo richieda la non applicazione dell’imposta (come nel caso dell’esportatore abituale), ovvero l’applicazione di un’aliquota ridotta. Tale ultima ipotesi ricorre, ad esempio, nella disciplina relativa all’agevolazione “prima casa”, in cui è l’acquirente che è tenuto a dichiarare di possedere i requisiti, senza che il cedente debba (o possa) indagare sulla veridicità delle dichiarazioni;
- l’ultimo aspetto, quello relativo alla dimostrata insussistenza dell’esportazione dei beni acquistati con la dichiarazione d’intento risultata non veritiera, appare viziato sin dall’origine, atteso che la dichiarazione di possedere i requisiti di esportatore abituale (cd. “status”) non richiede la dimostrazione dell’avvenuta esportazione dei beni acquistati senza applicazione dell’imposta, in quanto il presupposto, come descritto in precedenza, si basa sulle operazioni effettuate nell’anno precedente. Pertanto, l’indagine non deve incentrarsi sulla sorte dei beni acquistati con il plafond, ma sulle operazioni che a monte hanno generato il plafond stesso. In altre parole, è sul passato che si deve indagare, e non sul futuro.