Fatture false: la presenza del capannone salva l’acquirente in buona fede
di Marco BargagliL’articolo 2 del D.Lgs. 74/2000 (rubricato dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) sanziona con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti indica, in una delle dichiarazioni relative a dette imposte, elementi passivi fittizi che consentono di ridurre la base imponibile.
Il fatto penalmente rilevante si considera commesso utilizzando “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” quando tali documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, ovvero sono detenuti ai fini probatori nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.
Sotto il profilo della responsabilità penale dell’acquirente, in giurisprudenza si sta ormai consolidando un orientamento che rende applicabile la sanzione, soprattutto nelle ipotesi di utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti, solo nei casi in cui venga accertata la consapevolezza del cessionario di prendere parte ad una frode fiscale.
Si ricorda che, come per le imposte dirette, anche ai fini Iva l’inesistenza della fattura può essere oggettiva, in quanto la stessa documenti operazioni in realtà mai avvenute, in tutto o in parte, ovvero soggettiva, qualora l’operazione documentata sia in realtà intercorsa fra soggetti diversi da quelli risultanti dalla fattura medesima (Cfr. circolare 1/2008 del Comando Generale della GDF, volume 2, pagina n. 147).
Con riguardo alla responsabilità dell’acquirente in buona fede, si cita un primo autorevole precedente giurisprudenziale emesso dalla suprema Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 2609 del 22 dicembre 2015.
In particolare, gli ermellini hanno sottolineato che nelle ipotesi di utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti:
- è onere dell’Amministrazione finanziaria provare, anche in via presuntiva (ex articolo 2727 cod. civ.) l’interposizione fittizia del cedente, ovvero la frode fiscale realizzata a monte dell’operazione da altri soggetti, nonché la conoscenza o la conoscibilità da parte del cessionario della frode commessa;
- compete al contribuente provare la corrispondenza anche soggettiva dell’operazione di cui alla fattura, con quella in concreto realizzata, ovvero l’incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale, ingenerato dalla condotta del cedente.
Nello specifico, nel caso risolto in sede di legittimità non è stato dimostrato, da parte dell’Amministrazione finanziaria, il fattivo e consapevole coinvolgimento dell’acquirente nella frode fiscale, con la conseguenza che il cessionario in buona fede è stato sollevato dalle responsabilità correlate con l’acquisto di merce documentato da fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.
Più di recente, sulla vexata quaestio si è espresso anche il giudice di merito, con le sentenze della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sezione distaccata di Brescia, n. 2569 e 2574 depositate in data 8 giugno 2017.
Anche in tale circostanza, i giudici del gravame hanno fatto osservare, tra l’altro, che:
- la nozione di fattura soggettivamente inesistente presuppone da un lato l’effettività dell’acquisto dei beni entrati nella disponibilità patrimoniale dell’impresa destinataria delle fatture e, dall’altro, “la simulazione soggettiva, ossia la provenienza della merce da ditta diversa da quella figurante sulle fatture“ (cfr. Cassazione Civile, sezione Tributaria, sentenza n. 29467/2008);
- la Corte di Giustizia UE ha stabilito nella causa C-18/13 che non sarebbe sufficiente, in se stessa, a escludere il diritto a detrazione la circostanza che il prestatore menzionato nella fattura non avrebbe disposto del personale, delle risorse materiali e degli attivi necessari, dovendo sussistere nell’acquirente la “doppia condizione” del comportamento fraudolento e della conoscenza che l’operazione si iscriveva in un’evasione alla luce di elementi oggettivi forniti dalle autorità tributarie.
Tale orientamento, peraltro, è stato ribadito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 25779/2014, nella quale è stato posto in evidenza che, tenuto conto della configurazione comunitaria dell’Iva e della giurisprudenza comunitaria, “occorre dimostrare non solo gli elementi di fatto caratterizzanti la frode (ovvero l’inesistenza di una autonoma struttura operativa del cedente ed il mancato pagamento dell’Iva come modalità preordinata al conseguimento fraudolento di un utile da parte della c.d. cartiera), ma anche la consapevolezza di essi da parte del cessionario, e quindi la sua connivenza nella frode, anche attraverso presunzioni semplici … “.
Nel caso esaminato da parte dei giudici lombardi, l’Amministrazione finanziaria non ha fornito le prove della consapevolezza da parte del cessionario, di prendere parte ad una frode fiscale.
Di contro, la parte ricorrente ha dimostrato che il fornitore dei beni aveva effettivamente la disponibilità di un capannone situato nelle vicinanze della società acquirente, come risulta dalla visura camerale e dalle fotografie prodotte in giudizio.
Infine, concludono i giudici di merito: “né può fare dubitare della buona fede della società accertata la circostanza che l’attività del proprio fornitore sia stata svolta nel corso degli anni con denominazioni diverse, in quanto si trattava sempre di ditte individuali facenti capo a ROSSI Mario. Ne consegue che il destinatario della fattura poteva non essere a conoscenza della circostanza che quest’ultimo avesse nel tempo cancellato la ditta recante la denominazione BETA, considerato che il capannone risultava comunque operativo”.