13 Giugno 2017

Fatture false: onere della prova sotto stress

di Massimiliano Tasini
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Sono opportune e condivisibili le soluzioni adottate dalla Cassazione nella sentenza n. 4335/2016 in materia di asserito utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Soluzioni che toccano il cuore dei problemi che ruotano attorno al fenomeno.

Intanto, la Corte delimita il “perimetro”, osservando che in tale nozione rientrano, sia le ipotesi di mancanza assoluta dell’operazione fatturata, sia quelle contraddistinte da ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, ivi compresa l’ipotesi di inesistenza soggettiva, nella quale, pur risultando i beni entrati nella disponibilità patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture di cui ha regolarmente versato il corrispettivo, venga accertato che uno o entrambi i soggetti del rapporto documentato dalla fattura siano falsi (cfr. Corte cass. V sez. n. 6378 del 22/03/2006; id. V sez. n. 29467 del 17/12/2008; id. V sez. n. 7672 del 16/05/2012; Id. V sez. n. 23074 del 14/12/2012).

La Corte affronta poi la delicata questione dell’onere della prova, sottolineando che “non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’Amministrazione, che adduce la falsità del documento, provare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è mai stata posta in essere”. Si tratta di una affermazione tanto fondamentale quanto spesso disattesa dall’Agenzia delle Entrate, ma sulla quale la Cassazione ha oramai manifestato, dopo pregresse oscillazioni, un costante orientamento  (cfr. Corte cass. V sez. 12.12.2005 n. 27341; id. V sez. n. 12802 del 10/06/2011; id. V sez. 11.9.2013 n. 20786).

Così impostati i termini della questione, la Suprema Corte definisce il “tipo” di prova che deve essere fornita: essa può ritenersi raggiunta se l’Amministrazione fornisce validi elementi, tra i quali rientrano anche “attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice (articolo 2727 cod. civ.)”, che possono riferirsi anche solo ad alcune delle fatture.

Una volta che tale prova sia stata raggiunta, allora competerà al contribuente dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate (cfr. Corte cass. V sez. 19.10.2007 n. 21953; id. V sez. 11.6.2008 n. 15395; id. V sez. 7.2.2008 n. 2847).

Dunque, sul Giudice di merito incombe l’onere di valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio  e solo in un secondo momento, qualora ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, egli deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato (cfr. Corte cass. V sez. 23.4.2010 n. 9784; id. V sez. n. 4306 del 23/02/2010).

Si badi bene che si tratta di una valutazione che compete solo e soltanto al Giudice di merito: la statuizione di tale Giudice sarà impugnabile in cassazione – non per il merito bensì – solo per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono.

La Corte si pronuncia poi in merito al fenomeno delle “frodi carosello“, ovvero situazioni caratterizzate dal fatto che la merce acquistata dal contribuente, che esercita il diritto alla detrazione Iva, proviene in realtà da soggetto diverso da quello interposto o cd. “fantasma”  -cd. missing trader – che ha emesso la fattura incassando l’Iva ed omettendo poi di versarla all’Erario).

In tal caso, sull’Amministrazione finanziaria, incombe l’onere di dimostrare l’interposizione fittizia della società “cartiera o fantasma” nella operazione commerciale che è stata certamente ed effettivamente posta in essere dal cessionario/committente ma con un diverso soggetto, il quale però non figura nella fatturazione.

La “cartiera” difetta, per sua natura di una struttura autonoma operativa, ed il mancato pagamento dell’Iva da essa perpetrato si pone come modalità preordinata al conseguimento di un utile nel meccanismo fraudolento.

Si tratta ora di stabilire se e fino a che punto rilevi l’eventuale “connivenza” del cessionario nella frode siccome perpetrata: anche in tal caso, applicando i principi di cui sopra, non è affatto richiesta la prova certa ed incontrovertibile di ciò, essendo sufficiente dimostrare la sussistenza di presunzioni semplici, purchè dotate del requisito di gravità, precisione e concordanza, ovvero la sussistenza di elementi obiettivi tali da “porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto” sull’inesistenza sostanziale del contraente (cfr. Corte cass. V sez. Sentenza n. 10414 del 12/05/2011; id. V sez. Sentenza n. 23560 del 20/12/2012); ricorrendo tale situazione, spetterà allora al cessionario/committente, che ha portato in detrazione l’Iva, fornire la prova contraria che l’apparente cedente/prestatore non è un mero soggetto (fittiziamente) interposto e che la operazione è stata “realmente” conclusa con esso, non essendo tuttavia sufficiente a tale scopo la regolarità della documentazione contabile esibita e la mera dimostrazione che la merce sia stata effettivamente consegnata o che sia stato effettivamente versato il corrispettivo, “trattandosi di circostanze non concludenti, la prima in quanto insita nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente, e la seconda perché relativa ad un dato di fatto inidoneo di per sé a dimostrare l’estraneità alla frode (cfr. Cass. Sez. Trib. 24 luglio 2009 sent. 17377; Cass. Sez. Trib. 20 gennaio 2010 n. 867; Cass. 11 marzo 2010 sent. 5912; Cass. Sez. Trib. Sent. 12802 del 10/06/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 20059 del 24/09/2014; id. Sez. 5, Sentenza n. 428 del 14/0112015. Giurisprudenza costante: Corte cass. V sez. 3.12.2001 n. 15228, id. 6.2.2003 n. 1779, id. 23.12.2005 n. 28695, id. 23.3.2007 n. 7146)”.

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