12 Febbraio 2020

Fatture per operazioni inesistenti e consapevolezza dell’acquirente

di Marco Bargagli
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Sulla base di un consolidato orientamento espresso in sede di legittimità da parte della suprema Corte di cassazione, nell’ambito della frode fiscale attuata mediante l’utilizzo di fatture inesistenti, l’Amministrazione finanziaria deve raccogliere indizi, connotati dagli elementi della gravità, precisione e concordanza idonei giuridicamente a integrare, a carico del contribuente, una presunzione semplice ai sensi dell’articolo 2727 cod. civ..

Il Fisco può regolarmente assolvere al suo onere probatorio raccogliendo un completo quadro indiziario, non necessariamente costituito da “prove certe ed incontrovertibili”, ma operando sulla base di presunzioni semplici, connotate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza che dimostrino, in modo oggettivo, che il cessionario era consapevole di prendere parte ad un meccanismo fraudolento.

Sotto tale profilo, l’acquirente in buona fede potrà sempre dimostrare di aver agito sulla base di criteri di diligenza tipici di un imprenditore accorto quali, a titolo esemplificativo:

  • aver acquistato beni o servizi al prezzo mediamente praticato sul libero mercato su prodotti similari;
  • aver verificato la reale operatività del fornitore, valutando la reale struttura commerciale/industriale in relazione alle forniture effettuate;
  • conservare traccia dei pagamenti, delle fatture di acquisto, della documentazione di trasporto e degli altri documenti comprovanti che la transazione è realmente avvenuta.

In merito giova ricordare che, per effetto delle modifiche intervenute in seguito all’entrata in vigore del D.L. 124/2019, attualmente l’ordinamento giuridico prevede la reclusione da quattro a otto anni nei confronti di chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti indica, in una delle dichiarazioni relative a dette imposte, elementi passivi fittizi (articolo 2 D.Lgs. 74/2000).

Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono comunque detenuti a fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.

Infine, qualora l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro centomila, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.

La normativa sostanziale di riferimento, nell’ambito dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, fornisce anche alcune indicazioni, specificando che:

  • per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi;
  • per “elementi attivi o passivi” si intendono le componenti espresse in cifra che concorrono, in senso positivo o negativo, alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto e le componenti che incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta.

Ciò posto, in tema di evasione fiscale, la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 33320 del 17.12.2019, ha confermato il precedente approccio ermeneutico espresso negli anni, tracciando importanti principi di diritto, anche sotto il profilo dell’onere della prova.

In ambito Iva qualora l’Amministrazione finanziaria rilevi che la fatturazione attiene ad operazioni oggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, la stessa ha l’onere di provare non solo l’oggettiva “fittizietà del fornitore”, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta.

Inoltre occorre dimostrare, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente.

A questo punto, assolto il predetto onere istruttorio, graverà sul contribuente fornire la “prova contraria” ossia di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la “diligenza massima” esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto.

Gli Ermellini hanno inoltre sottolineato che, per dimostrare l’estraneità alla frode fiscale, non assume rilievo né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi.

In definitiva, i Supremi giudici di legittimità, accogliendo la tesi difensiva, hanno sancito che il giudice di merito “non ha chiaramente indicato le ragioni per le quali gli amministratori della società contribuente “sapevano o avrebbero dovuto sapere”, secondo la specifica diligenza richiesta dalla loro qualifica professionale, che si trattava di fatture per operazioni “soggettivamente” inesistenti”.