Fatture soggettivamente false, costi sempre deducibili e IVA in cerca di buona fede
di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
Fatture soggettivamente false, trend confermato della giurisprudenza della Corte di Cassazione. Sempre deducibili i costi ai fini delle imposte dirette (irpef, ires e Irap), in campo IVA è necessario documentare la totale buona fede del contribuente.
Le recentissime sentenze n.1565 e 2026 del 2014 della Corte di Cassazione ribadiscono con assoluta incontrovertibilità che in presenza di fatture soggettivamente false, ossia emesse da soggetti diversi da coloro che hanno effettuato la prestazione fatturata, anche nel caso di piena partecipazione da parte del contribuente ricevente e utilizzatore il falso documento al disegno evasivo posto in essere, non esiste più dubbio alcuno alla deduzione del costo ai fini delle imposte dirette: lo stesso è sempre deducibile, salvo la verifica delle ulteriori ordinarie regole che disciplinano la deducibilità di un costo, in primis l’inerenza. In altre e chiare parole, dopo la modifica normativa apportata dal D.L. n. 16 del 2012, il sostenimento di un costo effettivo (si pensi ad una prestazione di facchinaggio), completamente inerente all’attività svolta (magari attività di trasporto), è sempre deducibile ai fini delle imposte dirette anche se il ricevente acconsente che ad emettere la fattura sia una mera cartiera in luogo del contribuente che ha realmente effettuato la prestazione. Sul fronte dei contenziosi in essere può pertanto procedersi senza timori di smentite: la Cassazione è ormai costante ed univoca in tale direzione.
Deve dirsi che la ricezione di una falsa fattura soggettiva potrebbe non essere rara e magari anche inconsapevole, soprattutto in riferimento a soggetti in grado di nascondere abilmente la propria soggettività IVA reale e di emettere a totale insaputa del ricevente fatture intestate ad altri soggetti, mentre il ricevente da parte sua ritiene realmente di essersi interfacciato con il soggetto intestatario della fattura emessa. Se poi, a seguito di indagini fiscali, emerge che in realtà la società emittente, magari avendo in “pancia” notevoli crediti IVA o perdite pregresse, è utilizzata solo per l’emissione delle fatture (mentre le prestazioni sono effettuate da altri), ecco che il ricevente si trova suo malgrado coinvolto in un’indagine “a cascata” dell’amministrazione finanziaria, che in queste casistiche contesta a tutti gli utilizzatori le false fatture: è poi onere del contribuente dimostrare la propria estraneità al disegno evasivo.
Oggi almeno sul fronte delle imposte dirette non esistono più dubbi. L’art. 8, comma 1, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, ha asserito che tali costi, se inerenti, sono sempre deducibili, come confermato dalla relazione illustrativa di accompagnamento del decreto: “l’indeducibilità non trova più applicazione per i costi e le spese esposti in fatture o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, ferme restando le regole generali in materia di detrazione della relativa Imposta sul valore aggiunto e in tema di deduzione ai fini delle imposte sui redditi”.
Tali conclusioni sono state fatte proprie sia dall’Amministrazione Finanziaria con la circolare n. 32 del 2012 (punto 2.3) che da subito dalla Corte di Cassazione che con la sentenza n. 10167 depositata il 20 giugno 2012, ha affermato: “(…) Ciò significa che ai soggetti terzi (….) non è più contestabile, alla luce della nuova norma, la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato (…)”.
Sul tema intervengono di recente le sentenze dapprima richiamate ed è in particolare la sentenza n. 1565, articolata e ben motivata, che merita di essere approfondita e custodita. In termini pratici, i giudici di Piazza Cavour sottolineano come:
- Circa la deducibilità dei costi ai fini delle dirette è inutile discutere, essendo la stessa sempre riconosciuta, anche per il passato. Espliciti sono i punti 3.2.2. e 3.3.3 della sentenza che si riportano in sintesi: “(….) in forza della nuova normativa, poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, i beni acquistati (…) non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati, non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costi relativi a dette operazioni. Resta, peraltro, pur sempre ferma la verifica della concreta deducibilità dei costi stessi in relazione ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (cfr. Cass. 10167/12; 3258/13; 12503/13; 24429/13).Ed è del tutto evidente che, stante il chiaro disposto del succitato co. 3 dell’art. 8 d.l. n. 16/12, la disciplina in parola ha efficacia retroattiva (Cass. 5342/13) (…)”;
- Relativamente all’IVA spetta al contribuente l’onere di dimostrare la sua estraneità dal disegno evasivo. La Corte di Cassazione nello specifico evidenzia che tale onere probatorio può essere offerto da parte dell’Amministrazione Finanziaria anche sulla base di presunzioni, con ciò determinandosi l’inversione dell’onere probatorio. Da parte sua, il contribuente deve rapportarsi alle presunzioni usate contro di lui e difendersi efficacemente. Nel caso esaminato ciò non è affatto avvenuto. Da un lato, il fisco ha dimostrato una serie rilevanti di elementi, tra cui i forti legami del contribuente utilizzatore della fattura con i soggetti emittenti e che avevano ideato la frode. Dall’altro, il contribuente si è limitato ad una difesa “formale” non convincente. Questo è rilevato dalla richiamata sentenza: “Il cessionario, in particolare, ha l’onere di dimostrare almeno, anche in via alternativa, di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto, (…) non è – tuttavia – sufficiente dedurre, da parte del contribuente, che la merce sia stata consegnata e la fattura, IVA compresa, sia stata effettivamente pagata, trattandosi di circostanze pienamente compatibili con il modello di frode fiscale, posto in essere mediante un’operazione soggettivamente inesistente (Cass. 17377/09; 230744/12). E tanto meno può considerarsi sufficiente la dimostrazione della regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta – com’è del tutto evidente – di dati e circostanze facilmente falsificabili dal contribuente (cfr. Cass. 1950/07, 12802/11)”.
In sintesi, la correttezza formale e il pagamento tracciato trovano il tempo che trovano. Serve davvero evidenziare in termini sostanziali la propria estraneità, altrimenti l’IVA non si detrae. Per la deduzione dei costi invece non esistono dubbi, tanto che la Cassazione fissa in chiusura della sentenza n. 1565 anche il principio da seguire da parte delle commissioni di merito: “in tema di imposte sui redditi, a norma dell’art. 14, comma quarto bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma primo, d.l. 2 marzo 2012, n. 16, non sono indeducibili per l’acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti, per il solo fatto che essi sono sostenuti nel quadro di una cosiddetta “frode carosello”, anche per l’ipotesi che l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che, a norma del t.u. delle imposte sui redditi approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità“.