Finanziamenti dei soci, valido l’accertamento se l’intervento è antieconomico
di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n.9132 depositata il 23 aprile 2014, è intervenuta in tema di finanziamenti dei soci effettuati in situazioni economiche e di risultati aziendali tali da non richiedere nessun intervento, evidenziando come tale anomalo comportamento possa essere un valido presupposto per esperire l’azione di accertamento. La sentenza appare quanto mai tempestiva a ricordare la vera essenza della richiesta comunicazione da effettuare all’amministrazione finanziaria, che per quanto prorogata per l’ennesima volta, resta un valido strumento di selezione (di sicuro con fondamenti più ragionevoli rispetto alla comunicazione dei beni fruiti dai soci).
Deve dirsi che attualmente con il limite del contante a 1.000,00 euro interventi spropositati da parte dei soci sembrano essere contenuti come problematica. Restano però “scoperte” le annualità ancora accertabili, rispetto alle quali i comportamenti poco virtuosi negli interventi della compagine sociale erano spesso e volentieri affiancati a gestione del conto “cassa” particolarmente allegre. Il binomio “conto cassa” e “conto finanziamenti infruttiferi dei soci” è infatti saldamente collegato da intrecci contabili che nell’ambito di un controllo fiscale possono aprire la strada a facili rilievi.
Ad esempio, la cassa particolarmente elevata è un sintomo di anomalia “evasiva”. O non si pagano i fornitori (almeno ufficialmente), dunque procedendosi ad acquisti a nero, ovvero potrebbe essersi innanzi alla volontà di introitare figurativamente ricavi “artefatti”, ossia finalizzati a raggiungere determinati risultati ma assolutamente non rispondenti alla realtà. In sostanza, l’azienda ha periodi di vendita a nero cospicui rispetto ai quali ai soli fini dichiarativi cerca di porre rimedio in parte (possibilmente in modo indolore), emettendo un certo quantitativo di documenti di vendita soltanto allo scopo di raggiungere un risultato “accettabile” agli occhi del fisco, comportamento adottato quando, ad esempio, già il valore delle rimanenze finali è esploso negli anni precedenti. O ancora più semplicemente vi sono stati prelievi da parte della compagine sociale, a scopi personali, mai correttamente documentati nel passato (a volte essendosi in presenza di veri e propri dividendi distribuiti in maniera occulta). Quando la cassa “esplode” è usuale scorgere, laddove siano presenti “disponibilità a credito”, continui prelievi da parte dei soci, finalizzati proprio al contenimento del messaggio negativo emergente dal bilancio.
A fare da contraltare, con effetti accertativi e di inattendibilità forse anche peggiori, vi è la cassa negativa, solitamente connessa alla mancata fatturazione dei ricavi. L’ipotesi è semplice, essendo sufficiente pensare a coloro che hanno una forte attitudine a massimizzare i costi deducibili ai fini delle imposte dirette e Iva detraibile e che invece sul versante dei ricavi e dei corrispettivi manifestano una certa propensione all’occultamento di quanto realmente conseguito. Con tali premesse sarà inevitabile l’innesco di una dinamica viziosa all’interno della cassa contabile che, progressivamente svuotata magari da pagamenti in contanti delle forniture “regolari”, non è parimenti ed in maniera adeguata alimentata dagli incassi “neri”. La nascita dei saldi negativi ha un corollario molto delicato: solitamente sono appurati in sede di elaborazione contabile solo “a posteriori”. Il problema è risolto nel modo più sbrigativo possibile, ossia accreditando il conto “cassa” tramite di un “finanziamento infruttifero titolare/soci”, anticipando, sotto il profilo temporale, la contabilizzazione del movimento finanziario al giorno stesso oppure immediatamente antecedente a quello della negatività di cassa. Inutile dire quale l’effetto dell’escamotage: il corrispettivo occultato (che ha generato la cassa negativa) avrebbe alimentato i ricavi e sarebbe stato soggetto a tassazione, mentre il finanziamento infruttifero è una voce di debito nei confronti dei soci, che all’atto della sua restituzione non farà emergere importi tassabili. Inutile rimarcare che ciò costituisce per i verificatori fiscali un grave indizio che l’attività di impresa sia potenzialmente finanziata con proventi derivanti da corrispettivi non dichiarati essendo possibile anche ricorrere ad eventuali ricostruzioni indirette del volume d’affari.
In realtà, i problemi connessi a simili atteggiamenti sono vastissimi. In primo luogo il dato emergente dal bilancio, che porta subito a delle riflessioni “accertative”. Ad esempio, se sono presenti rilevanti importi in cassa, non è comprensibile la necessità da parte dei soci di intervenire nella società con ulteriori apporti. Inoltre, è lecito chiedersi come mai non si attinga a tali contanti per evitare il ricorso al credito finanziario, con conseguente pagamento degli interessi. E se dovesse avviarsi una procedura concorsuale, gli importi in questione dovrebbero essere subito resi disponibili. Senza dimenticare le problematiche riferite a mancati versamenti IVA o delle ritenute, dove il presupposto recentemente emerso dalla giurisprudenza secondo cui il contribuente, in alcune precise circostanze, non è condannabile penalmente, potrebbe essere evaporato da tale semplice considerazione: in bilancio risultano comunque cospicui importi accumulati e pertanto i versamenti potevano essere effettuati.
Lo stesso dicasi per gli interventi da parte dei soci. Le domande lecite sono: quali sono le reali motivazioni economiche, quali sono le fonti utilizzate, qual è la capacità economica (con evidenti implicazioni redditometriche) da parte dei soci e via dicendo.
La sentenza n.9132 del 2014 si pone in tale solco accertativo, essendo ritenuta valida la presunzione del fisco avanzata in presenza di finanziamenti cospicui dei soci che “(…) oltre ad integrare una inverosimile condotta sistematicamente antieconomica (di finanziamento a fondo perduto di una società formalmente senza utili) non potessero spiegarsi alla luce delle dichiarate disponibilità patrimoniali dei soci stessi (…)”. Giusto dunque il recupero di presunti dividendi distribuiti occultamente e senza le ritenute stabilite dalla legge. In sostanza, l’idea avallata dalla Suprema Corte è che i finanziamenti effettuati, non essendo giustificati dalle risorse dei soci, provenivano da importi prelevati presso la medesima società. E si noti un particolare: fortunatamente la società aveva, nel caso in questione, risorse disponibili dichiarate, altrimenti la presunzione utilizzata sarebbe stata quella del riversamento in società di ricavi incassati a nero. In definitiva, più il conto cassa e il conto finanziamento soci sono delineati ed opportunamente tracciati, meno pericoli sul fronte accertativo si corrono.