17 Marzo 2015

Le risorse umane. LA risorsa

di Claudio Ceradini
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Prosegue l’analisi della prevenzione e gestione del dissesto finanziario, nell’ambito della nostra rubrica sulla crisi di impresa. Analizzati i rapporti con le banche e con i fornitori, si affronta oggi un aspetto cruciale della risoluzione della crisi di impresa: le relazioni con i dipendenti.


 

E’ dai tempi di Henry Ford che l’imprenditore, arguto ed intelligente, che volesse capire che le aziende valgono gli uomini che le conducono e ne rendono possibile lo sviluppo e la quotidianità, a tutti i livelli, ne ha la possibilità. Di lì in avanti quell’imprenditore non ha mai dimenticato la lezione. La scuola della “soft HRM” integra nelle strategia del vantaggio competitivo di Porter (1985) la gestione delle risorse umane con quelle della struttura. Poi ancora più in là la RBT (Resources Based Theory) di Barney nel 1991 e di Boxall e Purcell nel 2003 assegna assoluta priorità alla risorsa umana, chiave di volta della leadership di mercato duratura e difendibile. Nel frattempo, Miles e Snow nel 1984, Schuler e Jackson nel 1987 e poi Pfeffer tra il 1994 e il 1998, contribuiscono pur diversamente alla sistematizzazione delle politiche di gestione delle risorse umane che, applicate in tutte le circostanze, avranno un effetto positivo sulle performance aziendali. Personalmente, ricordo un ricchissimo business man inglese che alla domanda “come ci sei riuscito” mi ha risposto con semplicità disarmante, “put the right man in the right role, all the rest is bullshit“. Colore a parte, il senso è chiaro. E la regola non cambia quando l’azienda entra in crisi, anzi. La valutazione della qualità delle risorse umane e dell’adeguatezza delle figure rispetto al ruolo che occupano è indispensabile, ed anche qui servono i professionisti giusti, che capiscano di HRM. Guai pensare che la soluzione stia puramente in un taglio della base occupazionale. Se il problema si affronta tardi, a toro già infuriato, è ovvio che il taglio è indispensabile, con il concreto rischio che sia economicamente necessario ma strategicamente pericoloso, soprattutto se chi se ne va (ed è spesso così) sono i soggetti migliori.

L’approccio nel risanamento è quindi duplice, pur banalizzando per necessità di sintesi. Il primo di analisi dell’organizzazione e dello stile di direzione. Ci sono casi, vissuti personalmente, in cui la riorganizzazione del lavoro e delle funzioni insieme alla motivazione delle risorse mediante meccanismi di distribuzione del valore creato di anno in anno (se il valore dell’azienda aumenta, si decide che in misura diversa vi partecipino tutti, imprenditore e dipendenti, con premi di produzione e stock options) ha trasformato un gruppo stanco in una squadra instancabile e motivata. L’imprenditore intelligente e lungimirante, che potrebbe anche non averci mai pensato, se suggerito apprezzerà e modificherà volentieri il suo modo di comandare. Lo dovrebbe fare comunque, ma tanto più quando le prime crepe appaiono. La riduzione della base occupazionale in questo caso è solo eventuale, si faccia se serve, ma con grandissima attenzione e rispetto.

Se il momento giusto è passato, se la crisi è grave e il famoso toro imbufalito, l’intervento diviene per necessità drastico. All’analisi organizzativa e di direzione si affianca la necessità di ristrutturare attraverso gli strumenti che la legge disciplina. L’esigenza di garantire ai lavoratori la continuità del rapporto di lavoro deve essere contemperata con la via del ritorno all’equilibrio economico e con la necessità che il risanamento talvolta impone di trasferire aziende o loro rami. Per questo il Legislatore ha istituito diversi strumenti che assicurano ai dipendenti una rete di garanzie e, al contempo, alla società la possibilità di ristrutturare.

Due gli aspetti principali, i trasferimenti di azienda ed il contenimento del costo. La disciplina degli effetti del trasferimento d’azienda sui rapporti di lavoro in corso è contenuta nell’art. 2112 cod.civ., che trova applicazione allorquando in qualsiasi modo muti la titolarità di un’attività economica organizzata preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità. Si pensi alla cessione d’azienda o di un suo ramo (a questo proposito in senso limitativo Cass. Civ., 10.09.2010 n. 19364), alla fusione, alla scissione, all’usufrutto e all’affitto d’azienda o di un suo ramo, o altro ancora. Ai lavoratori trasferiti è garantita la continuità del proprio rapporto, alle medesime condizioni contrattuali preesistenti (anzianità, scatti retributivi, mansione, qualifica, etc.), ed è offerto un regime di solidale responsabilità di cedente e cessionario per i loro crediti, maturati fino alla data del trasferimento, derogabile solo a favore del cedente o precedente datore attraverso appositi accordi transattivi stipulati in sede protetta (art. 411 c.p.c.). Dopo la sentenza 19291 del 22.09.2011 della Corte di Cassazione, in modifica del precedente orientamento (tra le molte, Cass. Civ., 13.12.2000 n. 15687; Cass. Civ., 14.12.1998 n. 12548) la responsabilità solidale si estende anche al TFR, perlomeno per la quota maturata sino al trasferimento. Poi risponde solo il nuovo datore.

Attenzione poi alle procedure, quando la base occupazionale superi le 15 unità. Si applica l’obbligo di consultazione disciplinato dalla L. 428/1990, con comunicazione scritta alle organizzazioni sindacali, RSU o RSA, o in mancanza, ai sindacati di categoria, che possono replicare chiedendo un incontro nei sette giorni successivi. E’ una procedura sufficientemente rapida, circa un mese se va bene, ma ignorarne l’obbligo conduce dritti verso l’ipotesi di condotta antisindacale, sanzionabile ai sensi dell’art. 28 L. 300/1970, con possibili conseguenze più o meno nefaste sulla validità o sull’efficacia dell’operazione di trasferimento (Pret. Lecce, 27.07.1998, Pret. Milano, 02.07.1996, e più tranquillizzante Cass. Civ., 04.01.2000 n. 23).

Sull’altro versante, quello del contenimento del costo del personale, l’attuale quadro normativo prevede diversi strumenti, dalle forme di integrazione salariale utili nelle crisi temporanee, a forme di sostegno del reddito in caso di esuberi dal carattere definitivo ed irreversibile, fino alla riduzione della base occupazionale. In attesa della piena operatività dell’Assicurazione Sociale per l’Impiego (ASPI) introdotta dal 01.01.2013, lavoriamo con gli strumenti tradizionali e collaudati.

I contratti di solidarietà (D.L. n. 726/1984 conv. in  L. n. 863/1984 e dal D.L. n. 148/1993 conv. in L. n. 236/1993) sono utili, e poco costosi per chi viva un temporaneo momento di difficoltà ed abbia occupato mediamente più di 15 dipendenti nel semestre precedente la richiesta. Se ne ottiene una riduzione dell’orario di lavoro, che eviti o minimizzi i licenziamenti altrimenti necessari. La Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO – D.Lgs. n. 788/1945, dalla L. n. 164/1975 e dalla L. n. 223/1991) serve nelle situazioni di crisi temporanea di mercato per le aziende del settore industriale a prescindere dal numero di dipendenti occupati, ma non per le aziende del terziario, del commercio e dell’artigianato. Costa (4% fino a 50 dipendenti occupati, oltre l’8%) e richiede tempo per la sua attivazione (art. 7 L. n. 164/1975), ben che vada qualche mese tra consultazione sindacale, domanda all’INPS e riconoscimento. Dura poi 13 settimane, poche, prorogabili eccezionalmente fino ad un anno. Se le cose vanno peggio resta la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS – L. n. 223/1991) che si utilizza quando la crisi è strutturale, e con lei purtroppo l’eccedenza occupazionale. Disponibile per tutte le aziende industriali con più di 15 dipendenti e commerciali con più di 200 dipendenti (limite periodicamente ridotto, in deroga, a 50 lavoratori). Anche la CIGS costa (minimo il 3% fino a 50 dipendenti e 4,5% oltre), ma dura, come è ovvio che sia se la crisi è grave, 24 mesi consecutivi, prorogabili per due volte, ciascuna per un massimo di 12 mesi.

Infine la più triste delle misure, la riduzione di personale: nelle piccole realtà, fino a 15 dipendenti, il licenziamento è individuale, poi si impone la procedura di licenziamento collettivo (L. n. 223/1991), con la consueta comunicazione alle RSA o RSU e alle rispettive associazioni di categorie. Anche in questo caso servono tempo (45 giorni) e soldi. Va versato subito il “contributo di ingresso”, pari ad una mensilità di massimale lordo CIGS per ciascun lavoratore che si intende licenziare ed abbia diritto all’indennità di mobilità, integrato poi al termine della procedura di ulteriori da 3 a 9 mensilità per ciascun lavoratore licenziato, rispettivamente per i casi di accordo o mancato accordo sindacale. Unica scappatoia dalla tagliola è attivare la procedura nel corso di una procedura concorsuale.

Dato comune dei vari strumenti è che richiedono tempo e soldi. La loro attivazione non consente di risparmiare subito, anzi si spende. Quando si fanno i conti di fabbisogno e copertura del piano di risanamento se ne tenga conto. Prima ancora, bisogna che sulla principale e più strategica delle risorse aziendali, quella umana, le idee siano chiare, per il bene del progetto di risanamento e per il rispetto che alle persone è dovuto.

Ci siamo dilungati un po’ oggi, ma l’argomento lo richiedeva.

Martedì saremo più sintetici, parlando dei rapporti con l’Amministrazione finanziaria e previdenziale.