Fusione intracomunitaria a rischio CFC
di Ennio Vial
La fusione intracomunitaria rappresenta una possibile via per rottamare una holding estera. Si supponga il caso di un gruppo con una top holding estera e una subholding italiana, oppure l’ipotesi del gruppo con la holding estera ma senza la subholding italiana. In entrambe le situazioni si valuta la rottamazione della società estera.
In prima battuta è opportuno analizzare la percorribilità di soluzioni alternative, meno invasive sul portafoglio del cliente, come ad esempio il trasferimento della sede della società estera in Italia.
Seguendo tale strada, la stessa andrebbe poi fusa con la subholding italiana per accorciare la catena di controllo mentre, nella seconda ipotesi, il trasferimento realizza gli effetti desiderati ossia la creazione della struttura italiana in luogo di quella estera.
Questa soluzione, tuttavia, non è sempre percorribile agevolmente in quanto, a differenza dell’Italia, molto Paesi non ammettono il trasferimento in continuità giuridica per cui lo stesso equivale all’estinzione della società con gli immaginabili effetti in capo ai soci.
La fusione transnazionale diviene quindi l’unica strategia percorribile.
L’operazione straordinaria, disciplinata dalla direttiva 1990/CE/434, successivamente rifusa nella direttiva 2009/CE/133, può trovare applicazione solamente in ipotesi di società di capitali.
In presenza di una subholding italiana l’operazione si configura come una fusione inversa; diversamente, in assenza della subholding è opportuno costituire una società italiana da parte dei soci, con le medesime quote di partecipazione detenute nella struttura estera. In questo modo sarà possibile realizzare una “fusione a specchio”.
Si evidenzia come l’operazione di fusione transnazionale presenti una particolare complessità operativa alla quale sono connessi i relativi costi; l’operazione esaminata offre tuttavia la tutela comunitaria in materia di disciplina antielusiva.
L’art. 15 della direttiva, infatti, consente agli stati membri di disattendere la direttiva non a loro discrezione ma solo se lo scopo principale dell’operazione è l’elusione o l’evasione fiscale. E’ stabilito che il fatto che l’operazione non sia effettuata per valide ragioni economiche, quali la ristrutturazione o la razionalizzazione delle attività delle società partecipanti all’operazione, può costituire la presunzione che quest’ultima abbia come obiettivo principale, o come uno degli obiettivi principali, l’elusione o l’evasione fiscale.
In sostanza, la razionalizzazione delle attività delle società coinvolte, effetto tipico di una fusione, rende l’operazione difficilmente attaccabile sotto il profilo dell’elusione fiscale.
Un ulteriore aspetto che deve essere attentamente valutato è quello della “cfc white list”. Le società holding, infatti, rischiano di incappare nelle maglie dell’art. 167 co. 8 bis del tuir in quanto esercitano per definizione una attività passiva, e spesso presentano un livello impositivo inferiore alla metà di quello corrispondente italiano.
Questo profilo di criticità, invero spesso trascurato sia dai verificatori che dai consulenti, rappresenta il punto debole di questi veicoli esteri che conduce al desiderio di smantellarli. Si pensi soprattutto al caso in cui la holding operi anche come società di gestione degli intangibles del gruppo: i canoni potrebbero risultare tassati in modo molto mite con la conseguente imputazione del reddito per trasparenza in capo ai soci italiani.
Ebbene, si deve valutare con molta attenzione come i predetti redditi vengano imputati ai soci.
Infatti, il comma 1 dell’art. 167 del Tuir stabilisce che i redditi conseguiti dal soggetto estero partecipato siano imputati, a decorrere dalla chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del soggetto estero, ai soggetti residenti in proporzione alle partecipazioni da essi detenute.
In sostanza, bisogna avere riguardo al momento di chiusura dell’esercizio da parte del soggetto partecipato. Generalmente, la chiusura dell’esercizio avviene al 31 dicembre ma è evidente come in caso di fusione la stessa interverrà alla data di effetto della fusione.
La R.M. 22/E del 2009 ha escluso la retrodatazione contabile e fiscale in ipotesi di fusione domestica tra una società di capitali ed una società di persone. I medesimi principi devono trovare applicazione, a maggior ragione, in ipotesi di società appartenenti a regimi fiscali di paesi diversi.
Ne consegue che l’esercizio dell’incorporata, con la conseguente imputazione del reddito ai soci italiani, interviene nel corso dell’anno e precisamente alla data di effetto della fusione.
Questo spiacevole effetto potrebbe, in verità, essere evitato trasferendo in continuità giuridica la sede della società estera in Italia entro la prima metà dell’esercizio. In questo modo, la società estera neo italiana risulterebbe essere residente in Italia per tutto l’anno in quanto i requisiti della sede legale, della sede dell’amministrazione o dell’ubicazione dell’oggetto dell’attività previsti dall’art. 73 co. 3 del tuir devono essere valutati per la maggiore parte del periodo di imposta; in ipotesi di trasferimento nel primo semestre, le condizioni sopra esposte risultano verificate.