“Genuinità” della holding intermedia nelle operazioni di investimento
di Fabio LanduzziNella circolare n. 6/E del 30 marzo 2016 avente per oggetto la disciplina fiscale delle operazioni di acquisizione con indebitamento, quando viene affrontata la fase dell’exit dell’investimento da parte del fondo di private equity, e quindi della tassazione dei proventi ad essa correlati, l’Amministrazione richiama la necessità di verificare che le entità intermedie utilizzate dagli investitori abbiano un “radicamento effettivo nel tessuto economico del Paese di insediamento” e che esse non “fungano da mere conduit” non svolgendo perciò una “reale e genuina attività economica”.
Rivolgendo l’attenzione proprio al caso specifico della holding estera costituita quale veicolo intermedio dell’investimento, le considerazioni elaborate dall’Amministrazione hanno invero suscitato qualche perplessità fra gli operatori, le quali sono state riprese da Assonime nella circolare n. 17/2016.
Si osserva dapprima che la presenza di holding intermedie in queste forme di investimento risponde ad esigenze extrafiscali di tutto pregio, quali ad esempio: la segregazione del rischio sotteso alla singola operazione, il coinvolgimento di più investitori, la migliore funzionalità rispetto alle obbligazioni di garanzia connesse all’investimento, l’ottimizzazione delle strutture di governance, l’efficientamento delle operazioni di acquisizione e di disinvestimento delle singole società target, lo svolgimento di attività collaterali di tesoreria o di servizi di supporto, eccetera.
A ciò va aggiunto che la struttura tipica e fisiologica di queste holding intermedie è necessariamente “leggera” se misurata in termini di lavoratori e di struttura di costi di gestione; quanto poi alla funzione “passante” della holding intermedia, ciò può essere del tutto fisiologico rispetto al suo scopo sociale che è quello della ottimizzazione dell’investimento.
Per queste ragioni, non parrebbe corretto tacciare tali strutture, in modo aprioristico, di assenza “di sostanza economica”, essendo invece esse del tutto funzionali al perfezionamento dell’operazione di investimento. Infatti, evidenzia Assonime nella citata circolare, il disconoscimento del trattamento fiscale dei proventi realizzati dal fondo di private equity – si pensi alla esenzione o tassazione ridotta di dividendi e capital gains -, a cui fa capo la holding intermedia, quando questo è situato in uno Stato “collaborativo”, potrebbe determinare profili censurabili riguardo alla libertà di circolazione dei capitali.
Si ricorda poi che la stessa Amministrazione, nella circolare 32 del 2011, aveva osservato che il carattere “inerte” e quindi “potenzialmente artificioso” di una società stabilita in uno Stato membro, va compiuta con particolare cautela proprio “nel caso delle società finanziarie di partecipazione (holding)”: esse, infatti, viene sottolineato nel documento di prassi, “non sviluppano nella loro attività una presenza fisica significativa, ma non possono per questo essere tutte considerate quali forme di abuso del diritto di stabilimento”.
Una lettura quindi più equilibrata delle considerazioni esposte nella recente circolare 6 del 2016, come evidenzia Assonime, parrebbe essere quella per cui la necessità di provare da parte del contribuente la genuinità della holding intermedia e quindi della catena partecipativa con cui l’investimento è stato compiuto si riferisca ai casi di fondi di investimento collocati in Paesi non collaborativi.
Resta il fatto che su questo tema si incrociano evidentemente situazioni piuttosto complesse: da una parte il concetto, come detto, di funzionalità e quindi di genuinità della holding quale strumento dell’investimento; dall’altra parte quello della natura del fondo di investimento e della sua collocazione.
Il punto resta quindi aperto anche in ragione del fatto che la stessa analisi della natura di conduit o meno delle società holding appare non di rado un esercizio in concreto tutt’altro che agevole.