10 Aprile 2015

Gli effetti del recesso per le società di capitali

di Fabio Pauselli
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Il tema del recesso in ambito fiscale è stato affrontato dall’Agenzia delle Entrate con riferimento al caso delle società di persone nella Risoluzione n. 64/E/2008, ma non è mai stato analizzato per l’ambito delle società di capitale. Il documento di prassi citato ha risolto pragmaticamente la questione, consentendo di imputare la differenza di recesso, intesa quale maggior valore della partecipazione rispetto alla quota di competenza del patrimonio, a diminuzione del risultato imponibile.

Infatti, trattandosi di plusvalori latenti nel patrimonio societario, che residuano anche dopo il recesso, questi sono destinati a trasformarsi in reddito per i soci rimanenti. Tuttavia, essendo la differenza da recesso tassata in capo al socio receduto, al fine di evitare una doppia imposizione, prima in capo a quest’ultimo e poi in capo alla società quando le plusvalenze latenti saranno state realizzate, l’Agenzia delle Entrate ne riconosce la deduzione immediata in capo alla società di persone e, conseguentemente, in capo agli altri soci per trasparenza.

La stessa disciplina, tuttavia, non è così lineare se ci spostiamo nell’ambito delle società di capitali, non sussistendo un orientamento consolidato sulla sorte fiscale che queste somme hanno quando vengono corrisposte al socio di capitale recedente. In assenza di chiarimenti ufficiali, si sono formate negli anni due tesi contrapposte. La prima, indubbiamente più audace, sostiene la possibilità di estendere alle società di capitali il regime di deducibilità delle differenze da recesso già affrontato dall’A.d.E. nell’ambito delle società di persone. Una seconda tesi, invece, nega qualsivoglia deducibilità in capo alle società di capitali delle differenze da recesso.

Quest’ultima tesi è quella che la Direzione Regionale dell’Emilia Romagna ha sostenuto nella risoluzione n. 11489 del 6 marzo 2007, argomentandola principalmente son due motivazioni:

  1. La prima è che alla luce di una interpretazione letterale dell’art. 2473 del codice civile, le conseguenze dell’atto di recesso nelle società di capitali si ripercuotono direttamente ed esclusivamente nella sfera patrimoniale della società e nei rapporti tra i soci, negando, quindi, natura reddituale al rimborso erogato ai soci recedenti, mancando la necessaria inerenza alle attività dell’impresa.
  2. La seconda è che, anche ove si volesse ammettere la natura reddituale della differenza di recesso, quest’ultima non potrebbe essere comunque dedotta nell’ambito delle società di capitali in quanto, rappresentando una mera remunerazione del capitale apportato dal socio, ai sensi dell’art. 109, comma 9, lett. a) del Tuir non è deducibile ogni tipo di remunerazione che comporta la partecipazione ai risultati economici della stessa società, anche nel caso in cui vengano imputati a conto economico.

Al controverso trattamento fiscale delle differenze da recesso sin qui esposto si affianca quello in ambito contabile. Il principio contabile OIC 28 stabilisce che, in assenza di utili e riserve disponibili, a seguito della relativa delibera di riduzione del capitale sociale per far fronte al recesso del socio, sorge un debito nei confronti di quest’ultimo per un importo pari al valore assegnato alla partecipazione posseduta. Al contrario si segnala che Assonime, nella circolare n. 32/04, sostiene che il pagamento al socio recedente del maggior valore della sua quota costituisce un modo attraverso cui la società consolida nel proprio patrimonio le plusvalenze latenti e che, pertanto, andrebbero rappresentate nell’attivo patrimoniale, al pari dell’avviamento acquisito da terzi. Tale interpretazione, tuttavia, è rimasta isolata e criticata da gran parte della dottrina, trattandosi di un comportamento che violerebbe l’art. 2426 comma 1, c.c. il quale vieta l’iscrizione dell’avviamento autoprodotto.