I chiarimenti della GDF sui sensori dei rischi di reati tributari derivanti dalla responsabilità 231/2001
di Gianfranco AnticoIl D.Lgs. 231/2001 – che ha introdotto nell’ordinamento domestico la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, regolamentando, in particolare, i pesi di carattere amministrativo che gravavo sui citati enti collettivi in occasione del compimento di specifici reati da parte di propri dirigenti o amministratori (cd.“apicali”) od anche di persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di questi ultimi – è stato oggetto di confronto con la Guardia di Finanza, nel corso dell’annuale appuntamento con la stampa specializzata (Telefisco 2023).
Le questioni esaminate dalla GDF investono l’idoneità o meno dei modelli organizzativi e la responsabilità “231” derivante dalla commissione di un reato tributario, per una società di capitali, nell’ipotesi in cui, in assenza di un modello organizzativo, vertici aziendali/management e proprietà coincidono, una volta che il dell’articolo 39, comma 2, D.L. 124/2019, conv. con modif. in L. 157/2019, ha introdotto nel D.Lgs. 231/2001, la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche in relazione alla commissione di reati tributari, inserendo l’articolo 25-quinquiesdecies nel catalogo dei reati che costituiscono presupposto della responsabilità amministrativa degli enti e prevendendo, distintamente per reato, una serie di sanzioni pecuniarie.
L’adozione di un modello organizzativo, di gestione e controllo interno all’azienda, con il precipuo scopo di contrastare la commissione dei reati sanzionati dal D.Lgs. 231/2001, consente infatti di invocare l’esclusione o la limitazione della responsabilità aziendale, per uno dei reati espressamente sanzionati dal D.Lgs. 231/2001, le cui sanzioni, ancorché di sostanziale natura amministrativa, sono applicate dal giudice penale competente per i reati presupposto.
Osserva la GDF che i modelli organizzativi svolgono il ruolo di veri e propri “sensori” dei rischi di reato, sull’attività di monitoraggio e prevenzione interna.
E, per questi motivi, al di là dell’adozione, occorre che siano idonei, ossia adeguati alla specifica struttura e alla concreta attività dell’ente nei rapporti interni e nelle relazioni esterne, ed efficacemente attuati.
L’efficace attuazione del modello richiede:
- a) una verifica periodica e l’eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell’organizzazione o nell’attività;
- b) un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
Sul piano investigativo, l’attività della GDF è, pertanto, rivolta a verificare che il modello risponda all’esigenza di procedimentalizzare, previa mappatura delle aree di operatività esposte al rischio-reato, la formazione del personale e l’attuazione delle decisioni degli apicali, la gestione delle risorse finanziarie, la costituzione effettiva di un Organismo di vigilanza e un sistema di aggiornamento continuo del modello.
Funzionale a ciò è anche la predisposizione di un sistema di tutela da atti di ritorsione e discriminazione nei confronti dei whistleblower.
Naturalmente tutto ciò passa dalla documentazione predisposta dall’ente, che dovrà permettere ai verificatori di ricostruire a posteriori l’operazione e di individuare i soggetti che hanno effettuato e autorizzato la transazione, fermo restando l’adozione di un codice etico che formalizzi per gli appartenenti all’ente i principi aziendali, nel rispetto dei valori di legalità.
In definitiva, la ricorrenza di tali elementi, rimessi al vaglio della Magistratura, sarà determinante per valutare l’operato dell’ente, in termini di trasparenza, correttezza, lealtà nei rapporti con i propri portatori d’interesse (cd.stakeholder), tra cui amministratori e soci ma anche la Pubblica Amministrazione e l’intero sistema economico.
Passando al secondo quesito – assenza di un modello organizzativo e coincidenza fra management e proprietà – la Guardia di Finanza ha confermato (cfr. circolare n. 1/2018 della GDF) che l’estensione alle fattispecie penaltributarie della responsabilità amministrativa degli enti ai sensi del D.Lgs. 231/2001 impone alla polizia giudiziaria che sta indagando sul reato presupposto di rappresentare al Pubblico Ministero tutte le circostanze di fatto utili a verificare la sussistenza dei presupposti da cui può scaturire l’eventuale responsabilità dell’ente.
Nello specifico, la polizia giudiziaria, nel rispetto delle direttive del Pubblico Ministero titolare delle indagini, è chiamata a rilevare se il reato presupposto sia stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente da soggetti apicali o sottoposti e se questi abbiano agito nell’esclusivo interesse proprio o di terzi, circostanza che escluderebbe la responsabilità ex D.Lgs. 231/2001, nonché a verificare l’idoneità dei modelli organizzativi eventualmente adottati a prevenire la commissione di reati della specie di quello presupposto.
Con particolare riferimento al caso delle società a responsabilità limitata unipersonali, la GDF richiama un precedente di legittimità, con cui la Corte di Cassazione – sentenza n. 45100 del 06.12.2021- ha ritenuto che occorre valutare nel concreto, caso per caso, se la contestuale punibilità dell’ente e del suo rappresentante legale per il medesimo fatto costituisca una violazione del principio del ne bis in idem sostanziale.
Tale accertamento, secondo la Suprema Corte, deve essere effettuato sulla base sia di criteri quantitativi, in termini di dimensioni dell’impresa e di struttura organizzativa della società, sia funzionali, fondati sull’impossibilità di distinguere un interesse dell’ente da quello della persona fisica che lo “governa”, e, dunque, di configurare una colpevolezza dell’ente disgiunta da quella dell’unico socio.