15 Dicembre 2014

I compensi agli amministratori non residenti

di Nicola Fasano
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Capita spesso che società italiane debbano corrispondere il compenso di amministratore a un soggetto
fiscalmente non residente in Italia.
Partendo dal quadro normativo
interno (ben sintetizzato e analizzato dalla
norma di comportamento dell’ADC 169/2007) come noto, l’art. 50, comma 1, lett. c-
bis), Tuir prevede che sono
redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, “
le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione agli uffici di amministratore
Resta confermato tale inquadramento reddituale anche qualora l’amministratore sia un
lavoratore dipendente, in quanto la lettera b) del citato art. 50 Tuir qualifica come
redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente anche le indennità e i compensi
percepiti a carico di terzi dai prestatori di lavoro dipendente per incarichi svolti in relazione a tale qualità,
ad esclusione di quelli che per clausola contrattuale
devono essere riversati al datore di lavoro e di quelli che per legge devono essere riversati allo Stato.
Pertanto, nel caso di
compenso “reversibile”, erogato cioè al datore di lavoro (e non all’amministratore persona fisica), non siamo più nell’ambito dei redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, ma si ritiene che si versi nell’ambito del
reddito di impresa, poiché il compenso in esame rappresenta un
componente positivo di reddito.
Le cose però potrebbero cambiare qualora il compenso sia erogato ad un
soggetto non residente. In tal caso, infatti, la normativa interna, sotto il profilo della
territorialità (art. 23, comma 2, lett. b), Tuir) stabilisce che si presume prodotto in Italia (e dunque è ivi tassabile) il compenso di amministratore corrisposto
da un sostituto di imposta residente in Italia, indipendentemente dunque da dove l’attività sia fisicamente svolta. La
modalità di tassazione è invece delineata dall’art. 24, comma 1-
ter, D.P.R. n. 600/1973, secondo cui in tal caso il sostituto italiano deve operare la
ritenuta a titolo di imposta, sull’ammontare imponibile del compenso,
pari al 30%.
Va sempre verificata, tuttavia, la presenza di una
norma convenzionale di maggior favore, ove l’Italia abbia stipulato la Convenzione contro le doppie imposizioni con lo Stato interessato. La disposizione cui fare riferimento è l’art. 16 della Convenzione (se conforme al Modello Ocse), che, tuttavia, segue un
approccio simile a quello del legislatore italiano, ammettendo di fatto la tassazione (anche) nello Stato del soggetto che provvede al pagamento. Il
Commentario al Modello Ocse, peraltro, specifica che l’impostazione in esame resta valida anche quando le
remunerazioni siano corrisposte a persone giuridiche, in qualità di membro del Consiglio di amministrazione di una società residente nell’altro Stato contraente.
Tuttavia, in caso di compenso reversibile erogato al soggetto datore di lavoro non residente, resta il dubbio che questo, essendo
qualificabile come un componente del reddito di impresa non debba scontare alcuna tassazione in uscita dall’Italia, considerato che l’art. 7 del Modello Ocse, prevede che, in linea di principio, gli utili delle imprese sono tassati nello Stato della fonte
solo se riferibili a una (eventuale) stabile organizzazione ivi presente.
E’ chiaro che si tratta di una questione molto delicata, da risolvere con
estrema prudenza, perché in caso di controlli, l’Amministrazione finanziaria
potrebbe contestare al sostituto italiano
la mancata effettuazione della ritenuta alla luce del disposto dei citati art. 24, comma 1-
ter, d.P.R. 600/1973 e dell’art. 16 dell’eventuale Convenzione contro le doppie imposizioni (alla luce anche delle relative precisazioni del Commentario). Ciò dovrebbe portare il sostituto a
operare prudenzialmente la ritenuta del 30% anche nel caso in cui il compenso sia
corrisposto al datore di lavoro (persona giuridica) dell’amministratore, eventualmente
valutando di presentare istanza di rimborso nel caso, per nulla teorico, in cui lo Stato estero consideri tale erogazione quale componente positivo di reddito di impresa e pertanto
non riconosca il credito di imposta (o l’esenzione da tassazione locale del relativo reddito) rispetto alla ritenuta in uscita applicata in Italia, generandosi di fatto un fenomeno di doppia imposizione.