I “furbetti” tra sequestri e dintorni
di Massimiliano TasiniPatrizia Pellegrini
La sentenza n.37591/2013 della Corte di Cassazione, Sezione Penale, nel ribaltare a favore del contribuente le due precedenti pronunce di merito, annulla il sequestro per equivalente su beni dell’amministratore di una società di capitali inizialmente concesso dal Tribunale sulla scorta di argomentazioni assai lineari e persuasive.
Ricordiamo brevemente che dal 2008 è operante anche in materia tributaria il sequestro per equivalente finalizzato alla successiva confisca, quale disciplinato dall’art.322 ter Codice Penale. Si tratta di un provvedimento assai delicato poiché produce riflessi sotto vari profili, e dunque la sua adozione presuppone una valutazione particolarmente accorta della fattispecie.
La sentenza tocca tre questioni.
1. In primo luogo, il provvedimento è stato adottato nei confronti di chi, alla data della commissione del fatto, non ricopriva più l’incarico di amministratore, d’onde già sotto questo profilo la sua illegittimità.
2. Dalla pronuncia, tuttavia, sembra emergere – e questo è il secondo profilo – che difetta totalmente la prova che l’amministratore dimissionato abbia operato quale amministratore di fatto. Questa affermazione implicitamente significa pure che certamente anche l’amministratore di fatto può – diciamo noi: deve – essere coinvolto in un eventuale provvedimento adottato dall’Autorita Giudiziaria, ad evitare che i “furbetti” possano farla franca semplicemente ricorrendo a teste di paglia. Al riguardo, incidentalmente rileviamo che l’eventuale coinvolgimento dell’amministratore di fatto non comporta certamente il “discarico” di responsabilità di quello di diritto, come ritenuto dalla giurisprudenza assolutamente prevalente, seppur con qualche oscillazione.
3. La terza questione attiene alla sequestrabilità di un conto corrente intestato alla società di cui il reo è pure amministratore: la risposta fornita dalla Corte sul punto è assolutamente negativa, non potendosi ritenere che la sua capacità di disporne implichi la possibilità dell’Autorità Giudiziaria di sottoporlo a sequestro; al riguardo, sembra appena il caso di rilevare che, sebbene il sequestro ben possa essere disposto su un bene non (o non più) di proprietà del reo, ciò è legittimo solo laddove l’intestazione al terzo sia fittizia, cioè volta a tentare di sottrarre il cespite all’azione; sotto questo profilo, la fattispecie che ci occupa è assai diversa, salvo che non si ritenga (e dimostri) che la società costituisca null’altro che uno schermo e che le sue attività siano in effetti riconducibili al reo.
Al di là del caso specifico, le problematiche che si addensano attorno a questo strumento sono molteplici: la frequenza con cui l’Autorita Giudiziaria ne richiede l’adozione, se da un lato preserva la successiva ed eventuale azione di confisca, dall’altro pone questioni quanto mai delicate, tra le quali meritano menzione almeno due di queste.
In primo luogo, in tanto è possibile ricorrere al patteggiamento della pena in quanto il danno erariale sia risarcito: ma per risarcire il danno ci vogliono i soldi, e se è stato disposto un sequestro sarà ben difficile procedere di tal guisa.
In secondo luogo, la misura del sequestro è incredibilmente compatibile con l’istituto dell’iscrizione a ruolo a titolo straordinario ex art. 15 bis DPR 602/1973, istituto pure richiamato dalla disciplina dell’accertamento esecutivo, quale previsto dall’art. 29 del Decreto legge 78/2010. A sommesso avviso di chi scrive, sembra inverosimile che due azioni così dirompenti possano convivere, determinando effetti non voluti e non sostenibili. E’ ben vero che le logiche sottese ai due istituti sono diverse, ma l’effetto pratico, che poi è quello che interessa all’imprenditore, è la contemporaneità di due azioni che toccano due patrimoni per lo stesso fatto generatore, ovvero la (supposta) evasione realizzata. Qualcosa va ripensato, e in fretta.
Da ultimo, suscita perplessità quella giurisprudenza della Corte di Cassazione che, mutando orientamento rispetto al passato, ritiene che il sequestro possa avere ad oggetto il “beneficio” dell’azione evasiva inteso non solo come imposte risparmiate ma altresì come sanzioni ed interessi; è una tesi che, a sommesso avviso di chi scrive, non trova fondamento giuridico.