I limiti all’azione risarcitoria del socio contro gli amministratori
di Luigi FerrajoliCon la sentenza n. 14778 pubblicata in data 30.05.2019, la Terza Sezione della Corte di Cassazione si è pronunciata in ordine alla proposizione dell’azione di responsabilità da parte del socio di S.r.l. nei confronti dell’organo amministrativo e ha ritenuto che la stessa possa essere esperita dalla società o dalla curatela fallimentare, ma non anche dal singolo socio che non abbia sofferto un pregiudizio immediato e diretto.
Nello specifico, il socio di una S.r.l. aveva agito nei confronti dei tre amministratori della società per vedersi riconosciuti i danni conseguenti ad attività di mala gestio che questi ultimi avevano causato nel corso della propria gestione per le false fatturazioni e la falsità in bilancio commesse.
Il Tribunale di primo grado aveva ritenuto infondata la domanda di risarcimento dei danni asseritamente derivanti al socio, poiché avente ad oggetto offese indirette, non risarcibili ex articolo 2395 cod. civ.; la sentenza di primo grado era stata integralmente confermata in appello con le medesime argomentazioni.
Il socio aveva quindi proposto ricorso per Cassazione lamentando, tra gli altri motivi, la contraddittorietà della motivazione e l’erronea interpretazione dell’articolo 2395 cod. civ..
Investita della questione, la Suprema Corte ha ripercorso la decisione di secondo grado che aveva ritenuto infondata la domanda sul presupposto che il ricorrente aveva chiesto il risarcimento di danni indiretti, ossia di un tipo di danni che l’articolo 2395 cod. civ. esclude possa essere fatto valere dal socio personalmente.
Come noto, l’articolo 2395 cod. civ. anzidetto – di cui il ricorrente lamentava un’errata interpretazione da parte della Corte di appello – contempla il diritto “al risarcimento del danno spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori”, azione che “può essere esercitata entro cinque anni dal compimento dell’atto che ha pregiudicato il socio o il terzo”.
Sul punto, la Cassazione ha rammentato la tesi dominante in giurisprudenza secondo cui, in tema di azione nei confronti dell’amministratore di società, a norma dell’articolo 2395 cod. civ., “il terzo (o il socio) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione (di natura aquiliana) per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, dovendosi proporre, altrimenti, l’azione, contrattuale, di cui all’articolo 2394 cod. civ., esperibile, in caso di fallimento della società e dal curatore”, ai sensi dell’articolo 146 L.F. (sul punto, cfr. Cass. n. 8458/2014 e Cass. n. 2157/2016).
Tale regola costituisce specificazione del noto principio per cui i soci di una società di capitali non hanno titolo al risarcimento dei danni che costituiscano mero riflesso del pregiudizio arrecato da terzi alla società, in quanto siano una mera porzione di quello stesso danno subito dalla (e risarcibile in favore della) stessa, con conseguente reintegrazione indiretta a favore del socio (sul punto, Cass. n. 27733/2013).
In buona sostanza, con la sentenza in commento, la Corte ha ribadito che “delle condotte che arrecano danno alla società è quest’ultima (o la sua curatela) a doversi dolere, e che la reintegrazione della società nel valore perduto è conseguentemente reintegrazione del socio, per la sua parte”.
Secondo i Giudici di legittimità, quindi, la Corte di Appello aveva fatto corretta applicazione di tale regola, ritenendo infondata la richiesta di risarcimento in quanto relativa a danni causati dagli amministratori alla società, attraverso le false fatturazioni e le falsità in bilancio, che solo indirettamente potevano costituire pregiudizio per il socio.
Il ricorrente si doleva della mancata rivisitazione da parte della Corte di Appello di un tale consolidato orientamento, ma la Suprema Corte ha osservato come il fatto che il giudice di secondo grado lo avesse, invece, seguito non potesse essere di certo censurabile come violazione di legge.
Per tale ragione, la Cassazione ha respinto il ricorso e condannato il ricorrente alla rifusione delle spese di lite nella misura di euro 10.000, oltre ad euro 200,00 per spese generali e dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento del doppio del contributo unificato.