I pasti gratuiti nei ristoranti
di Roberto CurcuIn un precedente intervento ci siamo soffermati a parlare delle prestazioni di servizi gratuite, e di quando le stesse devono essere assoggettate ad Iva.
In particolare, per la normativa nazionale le stesse devono essere assoggettate ad Iva quando contestualmente è stata portata in detrazione l’Iva sugli acquisti necessari per porle in essere, l’operazione sia di valore superiore ad euro 50 e siano effettuate per l’uso personale o familiare dell’imprenditore, ovvero per altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa.
Come chiarito dalla stessa Agenzia delle Entrate con la risposta ad istanza di interpello n. 237/2019, restano escluse da Iva le prestazioni di servizi gratuite rese per finalità proprie dell’impresa.
L’articolo 3 del Decreto Iva dispone poi che restano escluse da Iva delle prestazioni di servizi gratuite che potrebbero qualificarsi come di “welfare aziendale” (prestazioni di trasporto, didattiche, educative, ricreative, di assistenza sociale e sanitaria a favore del personale dipendente) e le somministrazioni nelle mense aziendali.
Insomma, chi offre gratuitamente la cena di Natale o una gita ricreativa al proprio personale dipendente non deve preoccuparsi di dover assoggettare ad Iva tale prestazione di servizi.
Dovrà invece preoccuparsi – a parere di chi scrive – di rendere indetraibile l’Iva sugli acquisti di detti servizi, ma questo è un altro conto.
Diverso è il caso della mensa. La norma nazionale esclude espressamente che il datore di lavoro debba addebitare l’Iva sul valore normale della prestazione resa gratuitamente.
In caso di mensa offerta a pagamento ad un corrispettivo inferiore al costo, la Corte di Giustizia ha già statuito che la base imponibile dell’operazione è sempre il corrispettivo reso (e non il maggiore costo sopportato).
In termini di detraibilità Iva, il comportamento generalmente adottato, di esercizio del diritto, troverebbe anche un avallo implicito nella sentenza C-371/07, nella quale si evidenzia che in determinate circostanze il servizio offerto è effettuato per fini che non sono estranei all’esercizio dell’impresa, e il vantaggio personale che ne traggono i dipendenti risulta soltanto come accessorio rispetto alle esigenze dell’impresa (ad esempio ridurre i tempi della pausa pranzo per una migliore gestione dei turni, o degli impianti, o dei consumi energetici, ecc…).
Un caso che non si capisce bene se sia inquadrabile o meno come “mensa”, è quello delle imprese di ristorazione, nelle quali i titolari ed i dipendenti si ristorano durante lo svolgimento delle loro attività.
La questione è stata dapprima analizzata dalla Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale del Lazio, la quale, con risposta ad istanza di interpello 913-344/2011, considerata la normativa relativa alle prestazioni di servizi, ha evidenziato come quelle offerte ai dipendenti devono qualificarsi equiparate alla mensa, e quindi escluse da imposizione, mentre quelle offerte ai titolari e familiari devono essere assoggettate ad Iva se il valore delle spesse è superiore ad euro 50 (l’interpello riporta ancora il vecchio limite di euro 25,82, poi modificato).
Detta risposta ad interpello, tuttavia, ha evidenziato che per poter considerare applicabile tale regime, che di fatto non prevede l’obbligo di assoggettamento ad Iva dei pasti, è necessario che le operazioni considerate siano qualificabili ai fini Iva come delle prestazioni di servizi, e, richiamando la giurisprudenza comunitaria, ha ricordato che per essere considerate tali, le prestazioni di servizi che precedono ed accompagnano la fornitura dei cibi devono essere preponderanti; in sostanza, un pasto preparato e servito al tavolo è una prestazione di servizi, il “mangiucchiare” i generi alimentari mentre si lavora, è una cessione di beni, con conseguente modifica del regime fiscale.
L’Agenzia delle Entrate, però, per bocca del Ministro delle Finanze, nella risposta ad interrogazione parlamentare n. 5-03675 del 26.02.2020 contraddice sé stessa, in quanto nel caso di richiesta al dipendente di un piccolo contributo, ritiene che allo stesso debba essere applicata l’aliquota Iva del servizio di ristorazione (10%) e debba essere certificata l’operazione.
Tale risposta presuppone che l’Agenzia, non ritenga che i pasti offerti ai dipendenti del ristorante siano da qualificare come “mensa”, posto che in tale caso l’operazione dovrebbe essere assoggettata ad Iva al 4% e sussisterebbe l’esonero da certificazione del corrispettivo.
La Cassazione è intervenuta sull’argomento con la sentenza 21290/2016, ed ha in modo abbastanza tranciante affermato che la fruizione dei pasti da parte dei dipendenti non è mai da assoggettare ad Iva, in quanto equiparabile ad un servizio di mensa.
Per quanto riguarda invece i pasti dei titolari, la Corte di Cassazione rileva che in caso di cessione di beni (“il mangiucchiare”) è sempre dovuta l’Iva, mentre nel caso di prestazione di servizi (il mangiare un piatto preparato, serviti al tavolo), si avrebbe esclusione da Iva qualora il valore del servizio sia inferiore ad euro 50.
La Cassazione n. 5175/2021 ha invece espresso una opinione diversa, ritenendo che le somministrazioni di cibi e bevande a soci e dipendenti costituisca quasi sempre una prestazione di servizi e pertanto ritenendo esclusa da Iva quelle prestazioni di valore inferiore ad euro 50, prescindedosi dal committente della prestazione, “vuoi che si tratti di dipendente, collaboratore ad altro titolo, vuoi che si tratti di socio dell’imprenditore”.
In sostanza, per i pasti offerti ai dipendenti, di valore inferiore ad euro 50, anche se con diverse argomentazioni, si giunge sempre alla esclusione da Iva.
Non uniformità di risposte si ha nei casi di pasti offerti ai dipendenti di valore superiore ad euro 50 (ipotesi per lo più teorica), in quella di pasti consumati dai titolari, nonché nel caso di operazioni che non si qualifichino come “prestazioni di servizi”: si pensi ad esempio alla bevanda in lattina consumata dal dipendente di un venditore di generi alimentari di asporto…