I proventi incassati dal professionista correlati a costi dedotti
di Paolo Meneghetti - Comitato Scientifico Master Breve 365Il recente Interpello n. 482 del 28.09.2022 ripropone all’attualità il tema frequente delle somme incassate dal professionista che sono correlate a costi inerenti l’attività professionale: la tesi che ne emerge genera un certo disorientamento tra gli operatori e certamente non brilla per razionalità.
La vicenda riguarda un avvocato che, avendo risolto il contratto di locazione per lo studio che egli utilizzava quale locatario (a titolo esclusivamente professionale), richiede al locatore la restituzione di una certa somma in quanto erano stati pagati canoni locativi eccedenti quanto era effettivamente dovuto in base al contratto.
Il locatore resiste alla pretesa, ma a seguito di una mediazione giudiziale favorevole al locatario si vede costretto ad erogare la somma richiesta.
Quindi, diciamo a titolo esemplificativo, che nei periodi 2018/19 e 2020 l’avvocato ha pagato (e dedotto) canoni per 100 e nel 2021 incassa la somma di 30.
Proprio su quei 30 verte l’interpello, nel quale l’avvocato/interpellante ritiene di non dover tassare la somma percepita in quanto configurabile come sopravvenienza attiva, provento che, come è noto, non partecipa alla formazione del reddito da lavoro autonomo ex articolo 54 del Tuir.
In questo senso viene citata la risoluzione 163/E/2001 che afferma “Devono ritenersi, invece, esclusi dalla formazione del reddito di lavoro autonomo gli altri proventi diversi dai compensi come le plusvalenze patrimoniali e le sopravvenienze”.
Ora mentre le plusvalenze sono state inserite nel corpo dell’articolo 54 (già dal 2006) non così è accaduto per le sopravvenienze attive, che ancora oggi sono estranee alla formazione del reddito professionale, il quale reddito poggia principalmente (anche se non esclusivamente) sulla nozione di compenso incassato per l’opera intellettuale svolta.
La risposta della Agenzia va in direzione opposta, ritenendo che per ragioni di simmetria tributaria, il provento incassato e correlato a costi precedentemente dedotti va tassato nel reddito da lavoro autonomo.
Ma vi è di più, nel senso che l’Interpello cita alcune precedenti risoluzioni (in modo particolare la risoluzione 356/E/2007) nella quale si afferma non solo che il provento correlato a costi di anni precedenti è tassabile, ma anche che esso configura in qualche modo la nozione di compenso professionale, tanto è che viene fissato l’obbligo di operare la ritenuta d’acconto, se chi paga riveste la qualifica di sostituto di imposta.
Va notato che la definizione di “provento correlato a costi dedotto in anni precedenti” configura proprio la nozione di sopravvenienza attiva, ma l’Agenzia non cita mai questo termine che porterebbe ad una conclusione necessariamente indirizzata sulla non tassabilità.
Ora, si può convenire che in forza di un principio di simmetria tributaria sarebbe logico che se costi dedotti sono oggetto di ristoro parziale o totale, il ristoro debba essere tassato, ma ciò non deve far dimenticare che il reddito da lavoro autonomo è determinato in base all’articolo 54 del Tuir, articolo che non cita in nessun modo la rilevanza delle sopravvenienze attive.
Se il legislatore ne avesse voluto la tassazione lo avrebbe esplicitato nel 2006 quando furono inserite nella tassazione le plusvalenze patrimoniali (fino ad allora irrilevanti nel reddito professionale), mentre ciò non è accaduto, e, parere di chi scrive, non si può azzerare il contenuto normativo sulla base di un principio (magari anche ragionevole) di simmetria tributaria.
Ma le contraddizioni non sono solo quelle sopra citate.
Pensiamo al tema del riaddebito di costi, cioè esattamente la disciplina sopra descritta, con la differenza che il professionista riaddebitante incassa la somma nello stesso esercizio in cui ha sostenuto il costo.
L’esempio tipico è il professionista X, titolare unico del contratto di affitto per lo studio professionale, che riaddebita al professionista Y la meta del costo, dato che Y, con propria partita Iva, svolge la sua attività lavorativa nei medesimi locali in uso al primo soggetto.
La percezione della somma in questione configura un compenso?
E quindi anche in questo caso va operata la ritenuta di acconto?
L’agenzia delle Entrate sul punto è stata molto chiara in diversi precedenti di prassi, a partire dalla circolare 58/E/2001, par. 2.3 in cui, esaminando il riaddebito, afferma chiaramente la sua irrilevanza quale compenso professionale, stabilendo nel contempo che il costo deducibile per il professionista riaddebitante è solo quello fiscalmente restato a carico, cioè al netto della parte rimborsata da terzi.
Ma è la circolare 38/E/2010, par.1.4 che sembra in aperto contrasto con le ultime pronunce di prassi sopra citate: infatti in questo spunto del 2010 si esamina l’ipotesi del riaddebito incassato nel periodo d’imposta successivo a quello di sostenimento del costo.
Ebbene la conclusione, totalmente condivisibile, è che se la somma pagata riduce il costo e non è mai compenso professionale, non può diventare compenso professionale solo perché la sua manifestazione finanziaria si manifesta l’anno dopo il sostenimento dei costi. Quindi la conclusione è che per il professionista riaddebitante il provento incassato non rileva mai come componente positivo, in senso stretto, dell’attività professionale.
Non deve trarre in inganno il fatto che nel caso dell’Interpello 482/2022 la somma viene erogata non da un collega del professionista ma da un terzo, nel senso che il tema di fondo è analogo: si tratta di proventi correlati a costi dedotti in anni precedenti, che, fino a quando non sarà modificato l’articolo 54 Tuir, dovrebbero essere considerati non fiscalmente rilevanti.