Il certificato penale nell’associazionismo
di Fabio Pauselli
Entra in vigore dal 6 aprile l’obbligo per il datore di lavoro di richiedere il certificato penale a tutto il personale impiegato in attività che sono a diretto contatto con minorenni, al fine di verificare eventuali condanne a loro carico.
In particolare l’art. 2 del D.Lgs. n. 39 del 2014, in attuazione della direttiva dell’Unione europea n. 93 del 2011, prescrive che il “soggetto che intenda impiegare al lavoro una persona per lo svolgimento di attività professionali o attività volontarie organizzate che comportino contatti diretti e regolari con minori,” deve richiedere, prima di stipulare il contratto di lavoro e quindi prima dell’assunzione al lavoro, il certificato del casellario giudiziale della persona da impiegare al fine di verificare l’esistenza di condanne riguardante i reati di cui agli articoli 600-bis (prostituzione minorile), 600-ter (pornografia minorile), 600-quater (detenzione di materiale pornografico), 600-quinquies (iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile) e 609- undecies (adescamento di minorenni) del codice penale, nonché l’irrogazione di sanzioni interdittive all’esercizio di attività che comportino contatti diretti e regolari con minori.
Nel caso in cui il datore ometta di richiedere la certificazione in oggetto ai propri dipendenti, la sanzione è davvero rilevante: da euro 10.000 a euro 15.000 e in funzione del numero di violazioni commesse.
Questa norma, considerato l’esplicito riferimento normativo al “datore di lavoro” come unico soggetto obbligato, non esclude di certo gli enti non commerciali. In particolare quel riferimento alle “attività volontarie” presente all’interno del decreto legislativo ha generato vivaci reazioni nel mondo dell’associazionismo, allarmando soprattutto quegli enti in cui il volontariato è l’asse portante delle attività. Per non parlare di tutte quelle associazioni sportive in cui istruttori, dirigenti, amministrativi, non svolgono mai delle mansioni inquadrabili all’interno di un vero e proprio rapporto di lavoro.
In soccorso del mondo associativo è giunta una nota di chiarimento emanata dall’ufficio legislativo del Ministero di Grazia e Giustizia, nella quale si specifica che l’obbligo di rispettare tale adempimento sorge soltanto nel caso in cui l’ente o l’associazione che svolge un’attività organizzata (non occasionale e sporadica) si appresta alla stipula di un contratto di lavoro per avvalersi dell’opera di terzi. L’obbligo non sorge, invece, ove ci si avvalga di forme di collaborazione che non siano strutturate all’interno di un ben definito rapporto di lavoro.
Pertanto, le nuove disposizioni valgono soltanto in tutti quei casi in cui s’instaura un vero e proprio rapporto di lavoro, poiché al di fuori di quest’ambito non può dirsi che il soggetto che si avvale dell’opera di terzi possa assumere la qualità di “datore di lavoro”.
Il chiarimento fornito dal Ministero della Giustizia, nonostante faccia esplicito riferimento ai volontari, si ritiene che possa essere esteso a tutte quelle figure professionali che collaborano con enti e associazioni no-profit e dalle quali percepiscono soltanto dei rimborsi spese o dei compensi di natura occasionale. Anche le associazioni sportive dilettantistiche saranno escluse dalla richiesta del certificato penale per tutte quelle prestazioni sportive (atleti dilettanti, allenatori, giudici di gara, istruttori, ecc..) e non (collaborazioni di carattere amministrativo gestionale di natura non professionale) i cui compensi rientrano nei redditi diversi, art. 67 TUIR, comma 1, lettera m).