Il concordato preventivo liquidatorio nel nuovo codice della crisi
di Fabio BattagliaDurante i lavori preparatori svolti nell’ambito della “Commissione Rordorf” si è lungamente disquisito sulla opportunità di prevedere la fattispecie del concordato liquidatorio.
La scelta finale è stata quella di prevedere tale fattispecie, ma fissando limiti estremamente stringenti al fine di farne una alternativa alla liquidazione giudiziale non meramente sovrapponibile nei risultati ad essa.
Sul piano definitorio si individua la natura liquidatoria del concordato preventivo in negativo: è liquidatorio un concordato preventivo che non presenta le condizioni stabilite per il concordato in continuità.
La definizione di concordato preventivo in continuità è contenuta nell’articolo 84 D.Lgs. 14/2019, che apre specificando che, con il concordato preventivo, il debitore realizza il soddisfacimento dei creditori mediante la continuità aziendale o la liquidazione del patrimonio, stabilendo, quindi, l’alternatività delle fattispecie.
Successivamente (articolo 84, comma 2, D.Lgs. 14/2019) la norma, nello specificare che il concordato preventivo può realizzare la continuità sia in forma diretta che indiretta, in caso sia prevista la gestione dell’azienda in esercizio o la ripresa dell’attività da parte di soggetto diverso dal debitore, chiarisce che la condizione affinché il concordato preventivo possa in tal caso definirsi in continuità, è costituita dal mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno alla metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall’omologazione.
In caso contrario, il concordato che prevede una continuità di tipo indiretto deve essere qualificato come liquidatorio.
Successivamente (articolo 84, comma 3, D.Lgs. 14/2019) viene introdotta la condizione generale che caratterizza il concordato in continuità aziendale, in base alla quale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino.
La prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un’attività d’impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso.
Come noto, fino a quando l’attuale disciplina non è stata modificata nel senso di imporre il limite del 20% per il soddisfacimento dei creditori chirografari in caso di concordato liquidatorio, non si era posto il problema di una distinzione nella qualificazione del concordato in continuità o liquidatorio (tanto è vero che si ammetteva la fattispecie del concordato misto).
Solo successivamente i tribunali hanno dovuto, in assenza di una precisa definizione, elaborare dei principi, fissati appunto nella caratteristica della prevalenza dei proventi della continuità rispetto a quelli derivanti dalla attività liquidatoria, onde evitare la costruzione di piani volti ad eludere il detto limite.
Sotto un profilo squisitamente aziendalistico più di una riserva può essere mossa alla condizione posta, se non altro per la circostanza che appare incomprensibile il motivo per cui i proventi derivanti dalla cessione del magazzino rientrano in quelli atti a qualificare la continuità e non sono invece ricompresi gli incassi dei crediti.
La distinzione, evidente sul piano giuridico, sfugge totalmente sul piano aziendalistico, visto che sia il magazzino che i crediti rientrano nella nozione di attivo circolante.
La definizione introduce una cesura netta tra periodo ante concordato e post concordato, come se la continuità non fosse connotata da un continuum sul piano cronologico, che poco ha a che vedere con la separazione che dovrebbe riguardare la sola cristallizzazione delle posizioni passive soggette al concorso, ma non gli attivi.
In sostanza, quindi, il piano in continuità sarà sempre costruibile laddove venga rispettata la condizione che introduce una presunzione iuris et de iure di continuità e cioè quando i ricavi attesi dalla continuità nei primi due anni di attuazione del piano derivano da un’attività d’impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso, condizione anch’essa sicuramente assai rigorosa e che denuncia una idea moralistica dell’istituto del concordato preventivo.
Nell’ipotesi in cui le sopra citate ipotesi non si realizzino, allora si può accedere unicamente ad un concordato di tipo liquidatorio, per il quale sono previste due condizioni (articolo 84, comma 4, D.Lgs. 14/2019):
- l’apporto di risorse esterne deve incrementare di almeno il 10%, rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale, il soddisfacimento dei creditori chirografari;
- tale soddisfacimento non può essere inferiore al 20% dell’ammontare complessivo del credito chirografario.
Le condizioni appaiono assai stringenti, anche perché pare scontato che l’apporto di risorse esterne debba essere interpretato nel senso non di un quid pluris generico, che potrebbe in astratto derivare dall’interno grazie a soluzioni adottate nel piano di concordato, ma nel senso che deve trattarsi di risorse esterne che si aggiungono all’attivo concordatario.
Non è chiaro se il riferimento all’ammontare del credito chirografario debba riferirsi al solo 20% o anche al quid pluris riveniente da fonti esterne: ove così non fosse l’incremento del 10% si riferirebbe all’attivo residuo destinato ai creditori chirografari in una ipotizzata alternativa liquidazione giudiziale.
Per quanto in alcuni primi commenti sia emersa questa interpretazione più favorevole, il tenore letterale pare deporre in favore della interpretazione per cui l’incremento debba comunque riferirsi all’ammontare dei creditori chirografari, non nascondendo, peraltro, gli elementi di incertezza che comporterebbe la diversa interpretazione, facendo dipendere quell’incremento anche da variabili valutative dell’attivo liquidatorio.
Ciò detto, sarebbe auspicabile che l’interpretazione andasse nel senso dell’ipotesi più favorevole, al fine di evitare la sostanziale inutilizzabilità di questo strumento.
In merito al tema che ha animato dottrina e giurisprudenza sulla portata del termine “assicurare” nel vigente articolo 160, comma 4, L.F. (“la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari”), con riferimento ai poteri del tribunale in sede di ammissione, va rimarcato come, con la riforma, la questione sia ampiamente superata dalla chiara attribuzione al tribunale di verificare, oltre alla ammissibilità giuridica della proposta, anche la fattibilità economica del piano (articolo 47, comma 1, D.Lgs. 14/2019) che, ovviamente, investirà anche la fattibilità economica in ordine al raggiungimento della percentuale del 20%.
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