Il conferimento di azienda nell’attuale disciplina e prospettive della Riforma tributaria
di Paolo Meneghetti - Comitato Scientifico Master Breve 365L’operazione di conferimento di azienda ha nel nostro ordinamento tributario peculiarità che non sono rinvenibili in altre operazioni straordinarie con cui vengono trasferiti beni o complessi aziendali.
Il conferimento di azienda è l’unica operazione straordinaria che presenta una esplicita tutela da valutazioni antiabuso: in questo senso recita, per il profilo delle imposte sul reddito, l’articolo176, comma 3, Tuir, con l’ulteriore precisazione che nemmeno quando il conferimento è seguito da cessione della partecipazione ricevuta dalla conferente, beneficiando del regime pex, esso può essere valutato dall’Agenzia delle entrate per eventuali profili antiabuso. Il che attesta, senza ombra di dubbio, che tanto la cessione diretta del ramo di azienda, quanto la cessione indiretta tramite conferimento e cessione delle quote, sono giudicate soluzioni percorribili con uguali dignità fiscale, ancorché l’una sia certamente più conveniente (quanto a gravame tributario) dell’altra.
E va aggiunto che anche il profilo dell’imposta di registro, un tempo oggetto di possibili contestazioni laddove a seguito del conferimento venisse ceduta l’intera partecipazione riceduta dalla conferente, oggi è ampiamento tutelato dall’articolo 20, D.P.R. 131/1986 che recita (a seguito delle modifiche introdotte dalla L. 205/2017): “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.
Quindi risulta impossibile legare tra loro i 2 atti (conferimento e cessione di quote) ipotizzando un disegno atto a cedere l’intera azienda senza versare l’imposta proporzionale di registro.
E tutta questa ricostruzione è stata confermata recentemente con la risposta a interpello n. 260/E/2023 che analizzando una complessa operazione di conferimento di ramo di azienda in una newCo, con successivo affitto del ramo di azienda ricevuto dalla newCo, ha concluso che non sono ravvisabili nella citata operazione profili antiabuso in nessun comparto impositivo.
Ebbene questa peculiarità certamente non è de plano ritraibile in altre operazioni neutrali di trasferimento aziendale quali fusioni e scissioni che, specie le seconde, sono frequentemente lette come operazioni abusive laddove vi sia un fine di trasferimento a economie terze di beni o complessi aziendali (anche se va riconosciuto che la tendenza a bocciare come operazioni abusive le scissioni è meno rimarcata oggi rispetto al passato).
Una ulteriore peculiarità che rende interessante il conferimento di azienda, se confrontato con fusione e scissione, è la sua ibrida natura che lo fa essere a volte una operazione con fine realizzativo, a volte con fine di riorganizzazione aziendale, laddove, invece, fusioni e scissioni non possono che essere definite come operazioni di successione universale in cui il fine realizzativo è molto sottotraccia, laddove esso esista.
Nell’ambito della Riforma tributaria, l’articolo 6, lettera f), L. 111/2023 prevede la sistematizzazione e razionalizzazione della disciplina dei conferimenti di azienda nel rispetto del principio di neutralità fiscale del conferimento di azienda. Posto che si tratta di una norma che non prevede stanziamenti erariali è lecito pensare che essa potrà venire alla luce quanto prima, dato il noto problema di carenza di risorse pubbliche che ha sospeso (e forse bloccato per sempre o almeno per lungo tempo) i temi della Riforma più costosi per l’Erario, quali la riduzione della aliquota Ires al 15%, prevista dalla lettera a) della norma sopra citata.
In tale contesto vi sono alcuni passaggi nell’attuale articolo 176, Tuir che andrebbero rivisti poiché sono causa di problemi interpretativi, o addirittura di prese di posizione non condivisibili di parte della giurisprudenza il che genera incertezza nell’operatore tributario che volesse avviare un conferimento di azienda.
Tra queste incertezze interpretative va segnalato, in primo luogo, la corretta qualificazione fiscale della partecipazione che viene iscritta nell’attivo patrimoniale della conferente in cambio del ramo di azienda trasferito alla conferitaria.
Questa problematica non è di poco conto atteso che una peculiarità del conferimento d’azienda è proprio quella di sottrarre all’esame antiabuso l’operazione di conferimento cui segue la immediata cessione della partecipazione ottenuta dalla conferente, realizzando con ciò una sostanziale vendita del ramo di azienda senza gravame fiscale. Ma per ottenere questo risultato è necessario che la partecipazione in questione si qualifichi con i requisiti pex e, in effetti, la stessa norma dell’articolo 176, Tuir sembra favorire questo esito.
Infatti, le partecipazioni, a norma dell’attuale comma 4 del citato articolo 176, Tuir, si considerano iscritte come immobilizzazioni finanziarie nei bilanci in cui risultavano iscritti i beni della azienda conferita o in cui risultavano iscritte, come immobilizzazioni, le partecipazioni date in cambio. Quindi l’holding period è soddisfatto tramite una figurativa retrodatazione, o meglio tramite il subentro della partecipazione nell’anzianità dei beni oggetto di conferimento, senza soluzione di continuità.
Ma qui si apre un punto dolente e da sempre oggetto di discussioni a causa di una maldestra scrittura normativa. L’anzianità ereditata dalla partecipazione fa riferimento al momento di acquisto dei beni del ramo di azienda conferito o al momento di acquisto (o detenzione a titolo originario) dell’azienda conferita? Un esame strettamente letterale porterebbe a una conclusione, che chi scrive non condivide, in base alla quale il riferimento è ai beni dell’azienda conferita. In questo senso si è peraltro pronunciata una recente sentenza della Cassazione (n. 8235/2023) che, per la verità esamina un caso piuttosto atipico nel quale in un conferimento di azienda un elemento decisamente rilevante, quale il compendio immobiliare, entra a far parte del conferente a titolo di proprietà (in seguito a riscatto da leasing) solo in prossimità temporale con il conferimento stesso. Tuttavia, ciò che preme in questa sede è l’accento posto dalla Suprema Corte al legame “bene aziendale” e anzianità della partecipazione. Sul punto recita la sentenza: “Proprio per questo la norma ha essenziale riferimento ai “beni aziendali” più che al concetto d’azienda in sé. In altre parole in base al dato normativo emergente dalla disposizione di cui all’articolo 176, comma 4, Tuir, appare chiaro come la rilevanza del periodo di possesso dell’azienda da parte del conferente è strettamente legato all’iscrizione a bilancio dei beni aziendali (più che all’azienda nel senso di cui all’articolo 2555, cod. civ.), a sua volta legata alla loro proprietà in capo all’azienda”.
Questo è proprio il punto che non convince. In primo luogo, va segnalato che l’intero comma 4 dell’articolo 176, Tuir è finalizzato a riconoscere continuità nella detenzione dell’azienda e del bene di secondo grado che la rappresenta (partecipazione) tra conferente e conferitario, continuità temporale non interrotta dal conferimento, che si qualifica per questi fini come una operazione neutrale. Conferma ciò l’incipit del citato comma 4 che cita “le aziende acquisite in dipendenza di conferimenti, si considerano detenute dal soggetto conferitario anche per il periodo di possesso del soggetto conferente”. E quando poi nel secondo periodo del citato comma 4 si passa all’esame della partecipazione retrodatandone l’anzianità di detenzione, non può che trattarsi dello stesso tema, cioè il bene di secondo grado che rappresenta l’azienda trasferita più che i beni della stessa. Che questa fosse la volontà del Legislatore emerge anche da un passaggio interpretativo della stessa Agenzia delle entrate che nella circolare n. 57/E/2008, § 3.4, nel valutare gli effetti del conferimento di azienda afferma espressamente: “D’altra parte, il conferente avrà la possibilità di alienare le partecipazioni ricevute tenendo conto, ai fini del calcolo del requisito temporale richiesto per la rateizzazione della plusvalenza ai sensi del comma 4 dell’articolo 86 del Tuir ovvero per l’applicabilità del regime della “participation exemption” ai sensi dell’articolo 87 del Tuir, anche del periodo di possesso dell’azienda conferita”.
Come si può notare il riferimento è all’azienda e non ai beni trasferiti. E peraltro vi è anche un argomento di ordine pratico che porta a questa necessaria conclusione. Se il riferimento fosse ai beni dell’azienda come ci si dovrebbe comportare nel valutare l’anzianità della partecipazione atteso che non necessariamente i beni aziendali sono acquisiti nel medesimo momento? Se a fronte di un conferimento di ramo di azienda che ammonta a 100, un bene appartenente a quel ramo del valore di 10 è stato acquisito un mese prima rispetto al conferimento si dovrebbe concludere che il 90% della plusvalenza è trattata con pex e il 10% in via ordinaria? Ma oltre al fatto che questa ricostruzione è alquanto cervellotica[1], osta alla sua adesione il fatto che la partecipazione non può essere qualificata in parte pex e in parte non pex. O sono soddisfatti i requisiti dell’articolo 87, Tuir o non sono soddisfatti nella sua interezza e non avrebbe senso negare tale requisito quando, per assurdo, l’1% dei beni del ramo conferito è stato acquisito in prossimità del conferimento stesso.
Ma se si privilegia il legame tra bene aziendale e anzianità della partecipazione l’esito non può che essere questo.
Esito assurdo che porta a ritenere infondata la tesi da cui promana e cioè che l’anzianità di detenzione della partecipazione derivi dall’anzianità di detenzione dei singoli beni e non già della intera azienda trasferita.
Peraltro, sostenere il legame tra bene (e non azienda) e partecipazione porterebbe a situazioni veramente incongrue che anche il mero buon senso indurrebbe a ritenere insensate: si pensi al caso di una azienda i cui macchinari sono stati oggetto di un contratto di lease back eseguito in prossimità del conferimento della stessa azienda. La partecipazione ritratta dal conferimento (benché certamente derivi dal possesso della azienda conferita) non avrebbe i requisiti pex per il semplice fatto che i beni dell’azienda non risultano iscritti nel bilancio della conferente in quanto ceduti alla società di leasing, il che sarebbe conclusione veramente inaccettabile.
Scissione scorporo e conferimento di azienda, profili di responsabilità dell’avente causa
Le imprese in difficolta spesso valutano il disegno di eseguire operazioni straordinarie anche al fine di sottrarsi almeno parzialmente alla responsabilità in merito alle obbligazioni assunte precedentemente, oltre a proteggere per quanto possibile, una parte del patrimonio aziendale. In questo ambito non tutte le operazioni presentano gli stessi profili di responsabilità e più precisamente vi è una sensibile differenza tra scissione, in particolare la c.d. scissione scorporo di cui all’articolo 2506.1, cod. civ. e il conferimento di azienda.
Si rappresenti la situazione di una società che esegue una scissione scorporo attribuendo a una beneficiaria un ramo di azienda precedentemente gestito, e imputando a detto ramo le passività relative. Un medesimo esito può essere raggiunto tramite un conferimento di ramo di azienda in una conferitaria. A ben vedere con l’avvento della scissione scorporo gli esiti contabili delle 2 operazioni sono del tutto simili, nel senso che la partecipazione, che rappresenta il ramo di azienda trasferito, è in entrambi i casi iscritta nell’attivo della scissa/conferente.
Certamente la procedura da seguire per ottenere questo risultato è molto diversa tra le 2 operazioni, nel senso che nel caso del conferimento di azienda siamo di fronte a un atto di governance che viene eseguito senza coinvolgere necessariamente i soci (ma con obbligo di redigere la perizia di stima), mentre nella scissione scorporo siamo di fronte a una operazione che coinvolge tutti gli organi sociali e anche soggetti esterni agli organi sociali (amministratori per redigere il progetto, soci per approvarlo ed eseguire l’atto di scissione, nonché creditori per esprimere eventuale opposizione), ma altrettanto certamente l’aspetto più delicato è valutare i profili di responsabilità sulle passività trasferite.
In altre parole, quali sono i rischi che possono correre le società aventi causa dell’operazione in merito alle passività trasferite direttamente ad altra società beneficiaria oppure rimaste in capo alla dante causa?
Nell’ambito della scissione un primo profilo di responsabilità attiene agli elementi del passivo non specificamente attribuiti dal progetto di scissione, in tal caso, ai sensi dell’articolo 2506-bis, comma 3, cod. civ., rispondono in solido di dette passività tutte le società coinvolte nell’operazione. Tuttavia, vi è un limite alla responsabilità rappresentato dall’entità del patrimonio netto effettivo attribuito a ciascuna società beneficiaria.
Il tema del limite del patrimonio netto effettivo è centrale poiché ricorre in diversi ambiti di responsabilità della beneficiaria e della scissa: al riguardo va ricordato che la medesima locuzione compare nell’articolo 2506-ter, comma 2, cod. civ. (relazione degli amministratori) a proposito della quale si registra un passaggio del documento Oic 4. Secondo l’Oic il patrimonio effettivo va determinato a valori correnti, limitandosi, però, a rilevare le plusvalenze latenti di beni specificamente individuabili e oggetto di possibili esecuzioni forzate, in pratica escludendo avviamento e altre immaterialità non incorporate in beni singolarmente cedibili.
Un secondo profilo di responsabilità emerge nell’articolo 2506-quater, ultimo comma, cod. civ. in cui si afferma che per le passività trasferite ad altra società e non soddisfatte da quest’ultima è prevista responsabilità solidale da parte delle società risultanti dalla scissione e non assegnatarie di dette passività. Tale responsabilità coinvolge anche la scissa nella scissione parziale (e necessariamente nella scissione scorporo, dato che la scissa deve continuare l’attività), poiché la norma cita anche il termine “patrimonio netto rimasto”. La responsabilità trova sempre un limite nel patrimonio netto effettivo, e ciò assicura che in caso di scissione a favore di una beneficiaria, non si possa intaccare il patrimonio per un ammontare superiore a quello effettivo trasferito.
Sul punto va notato che nella scissione ordinaria verso società beneficiaria preesistente, pur ammettendo che la beneficiaria possa essere chiamata a rispondere delle passività attribuite dalla scissa (o anche attribuite ad altra beneficiaria insolvente), va sempre rilevato che il tetto massimo di tale responsabilità è il netto effettivo assegnato.
Nel conferimento d’azienda la società conferitaria trova quale unica norma in materia di responsabilità sulle passività della conferente l’articolo 2560, ultimo comma, cod. civ., che pur dedicato alla cessione d’azienda, è, per dottrina unanime, certamente applicabile anche al conferimento d’azienda.
In questa disposizione emerge che la conferitaria, nel trasferimento di azienda commerciale risponde dei debiti “suddetti”, cioè relativi al ramo di azienda trasferito, se essi risultano dai libri obbligatori. Da questa disposizione non sembrano emergere profili di responsabilità della conferitaria, in merito alle passività del ramo d’azienda trasferito ad altra conferitaria (nel conferimento di 2 rami di azienda a 2 società conferitarie), e ciò costituisce, senza dubbio, una differenza di non poco momento, rispetto alla operazione di scissione.
Sul punto è di grande aiuto una significativa sentenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 13319/2015) che, dopo aver ricostruito con grande precisione, la disciplina della cessione d’azienda e, in modo particolare, quale sia l’esito in materia di responsabilità sui debiti relativi alla stessa azienda ex articolo 2560, cod. civ. si interroga su quale sia la sorte di detti debiti quando oggetto del trasferimento non sia l’intera azienda, bensì un ramo di essa.
Nel caso in questione era stata eseguita una cessione di ramo di azienda (ma identiche conclusioni sono applicabili anche al conferimento di ramo di azienda) commerciale, mentre il ramo artigianale era stato mantenuto dal cedente. La questione controversa era valutare se i debiti relativi al ramo artigianale, e non soddisfatti dal cedente, potevano essere posti a carico dell’acquirente il ramo di azienda commerciale, come aveva sostenuto il creditore in giudizio e come aveva sentenziato la Corte d’Appello. Ebbene la Cassazione rovescia il giudizio di II grado ritenendo che l’acquirente sia irresponsabile di debiti non inerenti il ramo di azienda acquisito.
Sul punto la Cassazione afferma esplicitamente: “Alla luce della ratio della norma, deve affermarsi che nella cessione di ramo di azienda il bilanciamento di interessi previsto dal legislatore con l’articolo 2560 comma 2 cod. civ. si realizza solo ritenendo che l’acquirente di un ramo di azienda risponderà dei debiti che dalle scritture contabili risulteranno riferirsi alla parte di azienda a lui trasferita.
Con ciò non si vuole indurre alla convinzione che tramite un conferimento si possa ottenere una sostanziale impunità della società conferitaria in relazione alle passività trasferite all’altra conferitaria. Una simile conclusione costituirebbe un vulnus nel sistema che pregiudicherebbe le garanzie dei terzi creditori, però va certamente rimarcato che una cosa è prevedere una responsabilità esplicita (come avviene nelle scissioni), altra cosa è se questa responsabilità esplicita non sussiste. Ciò significa che il creditore non soddisfatto dalla conferente per una certa passività rimasta in carico alla conferente, ha come unico rimedio, per aggredire la conferitaria, la dimostrazione che con il conferimento si è agito in pregiudizio delle sue ragioni ex articolo 2901, cod. civ., cioè l’azione di revocatoria ordinaria che comporta la necessita di dimostrare che gli attori hanno agito scientemente per arrecare danno al creditore.
Le conseguenze contabili delle diverse nature del conferimento
La natura del conferimento di azienda è di difficile definizione, non tanto perché l’operazione non sia chiara, quanto perché si presta a finalità diverse assumendo, volta per volta, diverse sembianze che vanno dal modello conferimento/cessione a quello conferimento/trasformazione. Questa dualità si riflette anche sugli aspetti tributari, la cui applicazione “necessaria” tende a contaminare la natura del conferimento stesso. È chiaro che se dal punto di vista fiscale il conferimento deve avvenire in continuità dei valori, il tema dell’obiettivo realizzativo verrà sacrificato per non generare problemi tributari. Detto ciò, sarebbe utile che su questa complessa e interessante operazione si pronunciasse l’Oic, così come si è pronunciata su fusioni e scissioni. Infatti, la natura ambivalente del conferimento di azienda genera 2 differenti opzioni contabili, alternative tra loro, ma entrambe legittime in ragione dei diversi obiettivi che si vogliono ottenere tramite l’atto. È noto, infatti, che il conferimento di azienda viene definito, facendo riferimento ad argomentazioni condivisibili in entrambi i casi, sia una operazione di trasformazione societaria priva di effetti realizzativi, sia una operazione con finalità realizzative, del tutto assimilabile alla vendita.
Il conferimento di azienda come operazione di trasformazione societaria
Secondo un autorevole e famoso aforisma nel conferimento di azienda “nessuno compra e nessuno vende”, locuzione con cui si mette in risalto il fatto che non vi è un intento realizzativo nel trasferire un ramo di azienda in cambio di una partecipazione societaria, bensì la volontà di riorganizzare la gestione societaria. Per aggiungere argomenti a questa tesi spesso si cita la sentenza della Cassazione n. 8492/1990 secondo la quale il conferimento non può essere sovrapposto alla cessione poiché manca l’elemento prezzo per affermare questa analogia, quindi, saremmo di fronte a un contratto con causa associativa non realizzativa. Se si volesse individuare nel conferimento d’azienda la ipotesi più simile a una operazione con causa associativa basterebbe pensare al conferimento della azienda individuale in una Srl di cui il conferente è anche unico socio. Non vi è alcuno che non veda in questa operazione che non è stato sostanzialmente trasferito alcun ramo di azienda, bensì una impresa individuale si è trasformata in società.
Il conferimento come operazione realizzativa
Altre posizioni in dottrina enfatizzano invece l’aspetto realizzativo, quindi il conferimento definito come una vendita a tutti gli effetti. A difesa di tale tesi viene citata la sentenza della Cassazione n. 9523/2001 secondo la quale l’analogia tra il conferimento e la vendita è confermata dal fatto che la revocatoria fallimentare è applicabile anche al conferimento inteso come atto con finalità realizzative. E ancora a difesa di questa impostazione viene spesso citato l’articolo 2554, cod. civ., secondo il quale le garanzie che tutelano l’acquirente vengono applicate anche al conferimento. Anche in questo caso è possibile delineare una situazione di conferimento di azienda che rappresenta in pieno l’obiettivo realizzativo: basti pensare alla situazione di conferimento di ramo di azienda cui segue l’immediata cessione della partecipazione ricevuta per effetto del conferimento. A cessione avvenuta il conferente sarà del tutto privato di ogni collegamento con il ramo di azienda conferito, e nell’attivo avrà liquidità esattamente come se avesse ceduto il ramo di azienda. Va sottolineato che con l’attuale disciplina fiscale del conferimento di azienda si può dire che dal punto di vista tributario l’operazione ha una natura più associativa che realizzativa: attualmente, infatti, l’operazione di conferimento di azienda si muove in un contesto di neutralità necessaria (articolo 176, Tuir) rendendo impossibile l’effetto realizzativo, che invece emerge con ogni evidenza con il conferimento di singolo bene, fattispecie in tutto assimilabile, fiscalmente alla vendita.
Tutto ciò per dire che il conferimento di azienda è operazione versatile che assume le sembianze desiderate da colui che l’attiva. Poi dalla diversa natura della operazione conseguono aspetti contabili differenti.
In primo luogo, si pone la scelta se contabilizzare il conferimento a “saldi chiusi” oppure a “saldi aperti”. La differenza tra le 2 tecniche è intuibile già della letteralità delle 2 espressioni sopra citate. La tecnica a saldi chiusi implica che la società conferitaria contabilizzi i beni al netto delle poste rettificative dell’attivo (segnatamente i fondi di ammortamento) così come se i beni stessi venissero acquistati con contratto di compravendita. Sicché per esemplificare, se il valore dei cespiti fosse di 70 in quanto il costo storico era 100 e il fondo ammortamento 30 (e il perito conferma tale valutazione), la conferitaria li iscrive nell’attivo a 70 iniziando il processo di ammortamento. Al contrario nella tecnica contabile a “saldi aperti” il cespite viene iscritto dalla conferitaria conservando la memoria del costo storico e del fondo di ammortamento, esattamente come se l’operazione avvenisse in assoluta continuità dei valori. È evidente come la prima scelta sarà tanto più preferibile quanto più il conferimento in questione faccia riferimento al modello cessione, mentre la scelta a saldi aperti metterà in evidenza come quel conferimento faccia riferimento al modello trasformazione. Detto ciò, va osservato che in molti casi la necessità di applicare il principio fiscale di neutralità necessaria contamina la “purezza” della scelta contabile, quindi, la tecnica saldi aperti sarà adottata anche in conferimenti realizzativi. Ciò in quanto l’impossibilità di rilevare variazioni diminutive extra contabili rende necessario, volendo conservare l’ammontare degli ammortamenti ante conferimento, conservare il costo di acquisto originario nella contabilità della conferitaria. Riprendendo l’esempio di prima e postulando che la quota di ammortamento del bene derivante dalle aliquote fiscali (D.M. 31 dicembre 1988) sia del 10% si avrebbe, ante conferimento una quota annuale di 10 e un residuo di 7 anni di ammortamento. Se il conferimento avvenisse a saldi chiusi, quindi venisse iscritto un costo del bene pari a 70, per mantenere inalterato il processo di ammortamento si dovrebbe eseguire un ammortamento di 10, più elevato della aliquota fiscale ammessa (7 pari al 10%), con necessità di operare variazione in aumento di 3. In alternativa dovrebbe essere allungato il processo di ammortamento, quindi 7 all’anno generando un processo residuo di 10 anni di ammortamento, allungamento in certi casi non giustificabile civilisticamente. Al contrario, con la tecnica dei saldi aperti sarà possibile generare un ammortamento di 10 annui conservando la durata originaria del processo di ammortamento, e ciò anche nel caso in cui il conferimento si ispiri al modello cessione.
La dualità tra conferimento/cessione e conferimento/trasformazione si riflette anche sulla riserva che si genera in capo alla conferente. È opinione maggioritaria che laddove l’obiettivo sia realizzativo, la riserva che si genera in capo alla conferente per effetto dei plusvalori rilevati in sede peritale, sia una componente di Conto economico che può legittimamente confluire in una riserva di utile distribuibile ai soci. In linea con tale impostazione sono sia la Consob (comunicazione n. 94004211/1994), che ha condiviso la rilevanza attribuita, in sede di determinazione del risultato d’esercizio, alla plusvalenza da conferimento, sia l’Assirevi, che nel documento di ricerca approvato dalla Commissione tecnica il 12 gennaio 1998 ha precisato che ai fini civilistici la plusvalenza da conferimento è da considerarsi realizzata e, pertanto, va iscritta a Conto economico. È altrettanto evidente che ove il conferimento abbia un obiettivo di riorganizzazione aziendale e soprattutto avvenga all’interno del medesimo gruppo (under common control), considerare realizzata la plusvalenza è atteggiamento più rischioso, soprattutto se la genesi della riserva è seguita da un intento di distribuzione ai soci, così come afferma Consob nella citata comunicazione in cui viene ravvisata “…l’opportunità che la politica di distribuzione degli utili scaturenti dall’operazione in questione sia il più possibile correlata con la realizzazione finanziaria dei plusvalori”, con ciò implicitamente ammettendo che un’eventuale distribuzione degli utili de quibus non può ritenersi illegittima; anche se il principio della prudenza induce a ritenere che gli utili medesimi vengano distribuiti, quanto meno, “in misura parallela” agli ammortamenti effettuati dalla società conferitaria sui beni ricevuti.
[1] Si veda sul punto A. Cotto e C. Sgattoni, “Cassazione severa sul conferimento di azienda seguito dalla cessione della partecipazione”, in Eutekne info del 9 gennaio 2024.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Il reddito di impresa”.