Il decreto exit tax: a chi interessa?
di Ennio VialVita Pozzi
In questi ultimi giorni abbiamo appreso dalla stampa specializzata l’uscita di un decreto ministeriale del 2 luglio, seguito da un provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate del 10 luglio che disciplinano il regime fiscale del trasferimento delle imprese all’estero in sospensione di imposta qualora il paese di approdo rientri nella UE o nello spazio economico europeo e a condizione che vi sia lo scambio di informazioni.
La prima domanda che il lettore si pone è la seguente: ma a me la cosa interessa? In quali fattispecie si applica la exit tax ed il differimento della stessa?
Le casistiche sono indubbiamente notevoli e riguardano una platea di contribuenti (e quindi di consulenti) particolarmente vasta.
Il primo caso è quello dell’imprenditore di origine non italiana che era venuto nel nostro paese ad aprire una azienda nei periodi in cui l’economia tirava e che ora se ne torna a casa sua. L’articolo 166 del Tuir esordisce approcciando “il trasferimento all’estero della residenza dei soggetti che esercitano imprese commerciali, che comporti la perdita della residenza ai fini delle imposte sui redditi“.
Non si tratta quindi necessariamente della grossa società ma anche del piccolo imprenditore individuale che ritorna in patria a svolgere l’attività d’impresa.
Se torna in un Paese extracomunitario, ovviamente, il recente decreto non interessa, ma rimane certamente in vigore l’art.166 che prevede la tassazione dei plusvalori latenti senza possibilità di differimento o di rateazione del versamento.
La seconda casistica in cui la norma potrebbe trovare applicazione riguarda le molte imprese italiane di grandi dimensioni che nel corso degli anni sono state acquisite da gruppi esteri.
In questo caso, se l’Italia non si darà “una svegliata” nel contenere il prelievo fiscale e ridurre la burocrazia, si realizzerà una delocalizzazione selvaggia in Paesi più friendly nei confronti delle partite iva e l’unica magra consolazione potrà essere la tassazione (immediata o differita a seconda dei casi) dei plusvalori latenti.
La terza casistica che mi giunge alla mente potrebbe essere quella dell’imprenditore di origini italiane che cerca fortuna all’estero. Anche qui bisognerà valutare l’applicazione della exit tax che potrebbe riguardare l’impresa individuale o la società.
L’ultima casistica è quella della delocalizzazione all’estero di società che non svolgono una attività particolarmente operativa come le holding, le royalty company o le società immobiliari. In questo caso il trasferimento all’estero con la sospensione della tassazione è sicuramente possibile, atteso che l’art. 166 trova applicazione quando si tratta di reddito di impresa per cui potrebbe trovare applicazione anche in ipotesi di società immobiliare di comodo.
Anzi! Il trasferimento all’estero potrebbe essere una via per uscire dal tema delle società di comodo e del regime dei beni sociali utilizzati dai soci.
In questi casi, tuttavia, bisogna prestare la massima attenzione al fatto che l’art. 166 del tuir richiede non solo il trasferimento della sede all’estero ma anche la perdita della residenza in Italia, perdita di residenza che potrebbe non sussistere se la gestione dell’attività continua ad essere svolta nel nostro paese o rimane da noi l’oggetto dell’attività. L’ultimo aspetto, che riguarda soprattutto le società meramente immobiliari, sarà oggetto di un approfondimento futuro.
Da ultimo, suscita un velo di tristezza questa disciplina in quanto sembra quasi porsi come un palliativo della crisi: qui non hai alternative ma se vuoi andartene all’estero ci sono delle misure agevolative sulla tassazione.
In realtà, non era certo questo l’intendimento del legislatore che ha semplicemente dovuto recepire i principi comunitari sanciti in primis dalla sentenza 29 novembre 2011, causa C-371-10, National Grid Indus BV.