26 Aprile 2023

Il finanziamento come corrispettivo della vendita di partecipazioni

di Luigi Ferrajoli
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La scheda di FISCOPRATICO

La vendita delle partecipazioni nelle società di capitali e di persone è il negozio giuridico – generalmente a titolo oneroso – mediante il quale il socio cede, in tutto o in parte, il capitale sociale dal medesimo posseduto nei limiti consentiti dalla legge e dallo Statuto. Gli stessi, nonostante il principio della libera trasmissibilità delle quote, possono infatti talvolta prevedere particolari condizioni alla circolazione delle stesse.

Nella prassi, può accadere che la cessione di partecipazioni avvenga dietro il pagamento di una porzione del corrispettivo da parte dell’acquirente delle quote, oltre all’assunzione da parte di quest’ultimo dell’obbligazione di effettuare un finanziamento soci in favore della società compravenduta.

A tale proposito, la recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 7530/2023 ha analizzato il caso di un contratto di vendita contemplante una clausola sulla base della quale gli introiti di un finanziamento soci avrebbero dovuto essere utilizzati per estinguere parte dell’esposizione debitoria della società nei confronti dei venditori quali soci finanziatori della stessa, in misura proporzionale al debito verso ciascuno di essi.

A ciò avrebbe dovuto far seguito la restituzione – non alla stessa società acquirente – ma ai soci alienanti, della somma medesima, allo scopo di rendere loro il pari valore patrimoniale, a suo tempo versato in società a titolo di “finanziamento soci”; secondo l’accertamento compiuto dalla Corte del merito, tale restituzione sarebbe avvenuta in realtà a titolo di “versamento a titolo di futuro aumento del capitale sociale”, e non sarebbe stata corrispondente alla realtà.

La clausola in disamina sarebbe quindi potuta rientrare nella promessa del fatto del terzo prevista dall’articolo 1381 cod. civ. – secondo il quale “colui che ha promesso l’obbligazione o il fatto di un terzo è tenuto a indennizzare l’altro contraente, se il terzo rifiuta di obbligarsi o non compie il fatto promesso” -, sulla base dell’inesistenza di un debito restitutorio in capo alla società compravenduta.

Posto che l’acquirente non avrebbe avuto il potere di far deliberare alla società il pagamento della somma in favore dei soci venditori, la Corte d’appello aveva ritenuto illecita la predetta clausola, in ragione del fatto che, nell’ambito delle società di capitali, le operazioni economiche devono essere funzionali al perseguimento dell’oggetto sociale e a nessun titolo sarebbe stato lecito un pagamento della somma dalla società ai venditori, determinandosi altrimenti una violazione dei criteri di redazione del bilancio di cui agli articoli 2423 e ss. cod. civ.

Investita della questione, la Corte di Cassazione ha rammentato che, nei casi come quello in disamina, da una parte, il giudice deve procedere all’analisi degli interessi concretamente perseguiti dalle parti o, comunque, valutando l’utilità del contratto e la sua idoneità ad espletare una funzione commisurata agli interessi in gioco e, dall’altra, che la clausola prevista dall’articolo 1322 cod. civ. subordina i contratti non appartenenti ad una disciplina particolare alla verifica che essi siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

Da tali assunti deriva che i concetti di illiceità per contrasto con norme imperative, ordine pubblico e buon costume, come quello di meritevolezza, devono, volta per volta, essere riempiti di contenuto dagli interpreti chiamati a individuare quelle condotte che, pur configurando esercizio dell’autonomia negoziale, integrino in concreto una violazione dei divieti e il non legittimo esercizio del diritto d’iniziativa economica privata.

Ebbene, ad avviso della Suprema Corte il nuovo finanziamento che la socia entrante avrebbe dovuto compiere in adempimento degli accordi raggiunti, avrebbe potuto lecitamente dare luogo – in adempimento al contratto di compravendita delle partecipazioni sociali – alla restituzione della somma non alla stessa finanziatrice, ma ai soci uscenti, secondo un meccanismo lecito, consentendo l’adempimento dell’acquirente al pagamento del prezzo residuo della compravendita.

In definitiva, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la nullità della clausola fosse stata dichiarata senza che fosse stata accertata la violazione di specifici divieti positivi, con la conseguenza che la sentenza impugnata aveva alterato il sinallagma contrattuale voluto dalle parti, elidendo l’obbligazione di pagamento di una rilevante parte del prezzo.

Alla luce del ragionamento operato dai giudici di legittimità, è possibile concludere circa l’ammissibilità dell’assunzione a carico dell’acquirente delle quote dell’obbligo di eseguire un finanziamento in favore della società compravenduta in aggiunta al pagamento di una parte del corrispettivo, con l’accordo che il socio entrante si attivi per tenere indenni i soci uscenti degli esborsi in precedenza eseguiti in favore della società a titolo di versamenti in conto aumento capitale sociale. È ben inteso, comunque, che la natura di versamenti in conto aumento del capitale (e non di finanziamenti) degli originari versamenti dei soci alienanti alla società non rende di per sé nulla, per violazione dell’articolo 2423 cod. civ. o per preteso rimborso del capitale di rischio, la clausola che l’assunzione di quell’obbligo preveda.